La scrittura del ricordo

IL Museo della civiltà contadina del Centro sociale ricreativo culturale Il Mulino Dice Carmen: è stato inaugurato nel 1973. Gli oggetti esposti sono stati raccolti da un gruppo di agricoltori, IL GRUPPO DELLA STADURA, e poi donati all’Amministrazione Provinciale che li ha sistemati nella VILLA già appartenuta alla famiglia Smeraldi. Ogni oggetto della cucina suscita molti ricordi LA TAVOLA si apriva e diventava grandissima, poteva accogliere fino a ventiquattro persone; “AL SALAROL” dove si teneva il sale grosso; “AL CANTON DI STEC” era un angolo caldo vicino al camino dove si mettevano i bimbi, coperti con la “capparella” del nonno, quando stavano poco bene o erano particolarmente piccoli ed esili: “LA GRAMA” dove il pastone del pane veniva lavorato per ottenere un impasto omogeneo e soffice; “AL SDAZ” per setacciare la farina; “AL CARDINZEN” per riporre il pane, sempre in alto dove i bambini non potevano arrivare… “ AL GRANADEL, AL CASON DLA FARINA, AL BUS DI SULFAN”…
La cucina di Villa Smeraldi e il suo parco del Centro sociale ricreativo culturale Il Mulino Anna ha vissuto parte della sua infanzia in questa cucina. Con la sua famiglia abitava in una di fronte alla villa e suo fratello sposò la figlia del fattore. Ricorda il camino acceso e Linda che faceva la polenta, i momenti conviviali con gli gnocchini fritti. I Signori Smeraldi venivano alla Villa soprattutto d’estate e si portavano dietro la servitù che si occupava delle loro esigenze e dei pasti. I ricordi più belli sono quelli legati alle giornate di festa quando i bimbi venivano invitati nella cucina del fattore (attuale cucina) dove si giocava a tombola e gli uomini giocavano a carte, mentre i padroni festeggiavano con gli invitati del loro rango nelle stanze della villa. Carmen racconta che l’ultimo erede della famiglia Smeraldi lasciò la villa al Comune, poi passò alla Provincia; dopo la guerra è stata affidata all’ANPI, poi sede della Casa del Popolo ed è in questo periodo che fu costruita la pista da ballo e si ballava tutti i sabati e le domeniche. Tutti ricordano gli anni in cui nel meraviglioso parco denominato INCANTO VERDE si ballava. Sul piccolo palco fra gli alberi si sono esibiti tutti i più grandi cantanti degli anni 50/60 da Luciano Tajoli a Nilla Pizzi, da Gianni Morandi a Celentano. L’ingresso era a pagamento e rigorosamente vietato ai minori di sedici anni e le ragazzine che non potevano entrare arrivavano in bicicletta e sbirciavano tra i rami della siepe. Quelle che avevano i soldi per pagare il biglietto e l’età giusta entravano rigorosamente accompagnate da un adulto (mamme, zie, sorelle e fratelli maggiori) che ne controllava il comportamento. Spesso si prestavano i vestiti tra amiche e sorelle. La pista nel parco era molto bella e Renata ricorda una poesia di Remo Dotti… e le domeniche giungevano in un’onda di gioia, con le ragazze sorridenti che illuminavano il mondo nelle loro vesti di “mussolina”.
Il castello come noi l’abbiamo vissuto del Centro sociale ricreativo culturale Il Mulino Nara Quando eravamo bambine (prima della guerra), il 24 maggio, festa della Madonna Maria Ausiliatrice e festa del paese, aprivano le porte del castello e noi visitavamo tutte le sale; andavamo sulla torre, era bellissimo per noi, era come entrare in una favola. Si andava anche nella chiesina, c’erano due statue monumentali, adesso c’è solo la riproduzione in cartone! Arturina Durante la guerra una parte diventò ospedale, ci sono stati i mutilati… i bersaglieri, fu anche occupato dai tedeschi. Anna Dopo la guerra una parte del castello è stata destinata a fabbrica di marmellata, cioccolata e lavorazione dei pomodori; c’erano anche degli appartamenti e in uno, al piano terra, abitava la Iolanda, la levatrice. Renata Quando alla fine dell’ottocento Pizzardi venne in possesso del Castello ormai in rovina, lo fece restaurare e ne adibì una parte ad asilo. Chiamò due suore e aprì un asilo che funzionò fino al 1920. Dopo la Liberazione, il castello fu dato in affitto ad associazioni e cooperative, vi si facevano le lavorazioni già dette e fu aperto a tutti; diventò luogo d’incontro, sala da ballo e cinema: nella sala dei Cinque camini si facevano feste da ballo… Nara Io mi ricordo che venivo al cinema con Cesarino in braccio che prendeva il biberon, ora è sessantenne. Per un certo periodo in una sala c’è stata anche la chiesa: si facevano Cresime, Comunioni… Quando negli anni ’60 finì il contratto di affitto alle associazioni non venne più rinnovato e noi cittadini abbiamo perso un luogo d’incontro. Poi, negli anni ’70 venne destinato all’ISTITUTO RAMAZZINI, importante Centro di Ricerca sul Cancro, tuttora attivo negli spazi del castello.
La scuola di Bentivoglio non quella che voi conoscete del Centro sociale ricreativo culturale Il Mulino ORARIO: la scuola funzionava dalle 8,30 alle 12,30 per sei giorni alla settimana. Si andava a scuola a piedi per 4/5 Km. Nelle frazioni c’era solo fino alla classe IV mentre a Bentivoglio c’era anche la V. I banchi erano di legno a due posti con i seggiolini attaccati. LA DIVISA: nel periodo fascista tutti i sabati si andava a scuola vestiti da balilla e piccole italiane. Nel dopoguerra le bimbe avevano il grembiule bianco o nero, quello dei maschi era nero con colletto bianco. IL CORREDO: una cannetta con i pennini in un astuccio di legno già usato dalle sorelle e dai fratelli più grandi. I pennini erano di vari tipi: alcuni piatti, altri più lunghi a seconda della scrittura che si doveva effettuare. Il pennino si puliva con pezzettini di panno di varie forme o con foglie soffici e pelosine che sembravano di velluto. Con l’inchiostro si facevano tante birichinate e dispetti. Avevamo la matita, la gomma e il temperino (chi l’aveva), un quaderno a quadretti, uno a righe con la copertina nera e una scatolina con 6 colori. IL PROGRAMMA: si facevano molti pensierini, dettati e temi. Nel periodo del fascismo c’era una dottrina, tutto quello che si studiava era sempre riferito alla dottrina fascista. I problemi parlavano di piccoli balilla, di quintali di grano per il fronte, di soldati… Per contare e far matematica si usava il pallottoliere. Al mattino si faceva l’alzabandiera e davanti alla porta c’erano le guardie armate. COMPORTAMENTO: se facevi qualcosa di male le punizioni erano in ginocchio con i ceci sotto le ginocchia ti mettevano le orecchie da asino e facevi il giro per tutte le classi le maestre davano le righettate sulle mani, mandavano fuori dalla porta, dietro la lavagna o nell’angolo con la faccia rivolta verso il muro. Il più bravo, quello che dava più retta diventava capoclasse e segnava i buoni e i cattivi alla lavagna. Quando la maestra ti sgridava a casa non lo dicevi altrimenti le prendevi.
La risaia un lavoro faticoso alleviato dal canto corale del Centro sociale ricreativo culturale Il Mulino Le risaie ebbero grande estensione e furono produttive durante tutti gli anni ’50 poi gradatamente ridotte perché la coltivazione del riso non era più conveniente. Le mondine ricordano: si cominciava all’età di 14/15 anni. Qualcuna barava sull’età per poter cominciare prima. Ogni giorno lavoravamo dalle 8 alle 10 ore, ci recavamo al lavoro in bicicletta, chi l’aveva, entravamo nell’acqua con i piedi nudi e dovevamo stare piegate o per trapiantare le piantine o per eliminare l’erba infestante “giavon” molto simile al riso che solo un occhio esperto poteva riconoscere ed estirpare; da qui il nome MONDINE o MONDARISO. Una fase importante è il trapianto. Le piantine nel semenzaio erano molto fitte; venivano sfilate, si facevano dei mazzetti che venivano lanciati nella piana. Ognuna delle mondine prendeva un mazzetto ed interrava le piantine alla giusta distanza dopo aver fatto un buco nella terra con un dito, camminando all’indietro per non pestare il riso già trapiantato. Un’altra fase importante è la monda che durava circa 40 giorni e si guadagnava poco, però dava un pò di sicurezza. I caporali sorvegliavano le mondine ed erano molto severi. Durante il lavoro non si poteva parlare perché le chiacchiere lo avrebbero rallentato; per poter comunicare è nato allora il canto che spesso era un vero e proprio dialogo presentato sotto forma di canto. Il canto era concesso perché dava ritmo al lavoro quindi produttività. Negli anni 1947-48 e 49 le mondine fecero molte lotte per migliorare le condizioni di lavoro. L’idea di valorizzare l’area dell’ex risaia e di realizzare una zona umida come la vedete oggi nasce negli anni ’80. Si sono volute creare le condizioni adatte per il rifugio, la sosta e la riproduzione delle specie di animali che vivono nelle zone umide di acqua dolce.
Il canale Navile via di comunicazione e risorsa del territorio del Centro sociale ricreativo culturale Il Mulino La vita economica di Bentivoglio è storicamente legata al Navile Tutti sono concordi nel dire che: Era il Navile che permetteva la coltivazione del riso nelle campagne circostanti. Era sul Navile che scorrevano i barconi carichi di merci: riso, sale, pietre, bozzoli di bachi da seta… Era il Navile una via di comunicazione molto utilizzata anche dai bolognesi per venire in campagna: il trasporto su acqua si poteva effettuare durante tutto l’anno, mentre le strade spesso erano impraticabili perché melmose. Era l’acqua del Navile che faceva girare le ruote dei mulini. Era nelle acque del Navile che si lavavano e si risciacquavano i panni. Era sugli argini del Navile che i bimbi giocavano. Nel 1948 il Canale Navile è andato in pensione; chiuso alla navigazione ha continuato ad essere un prezioso portatore di acqua per le campagne.
Quando a Bentivoglio c’era un’isola del Centro sociale ricreativo culturale Il Mulino Una volta a Bentivoglio c’era un’isola. Il Canale Navile si divideva in due rami a PALAZZO ROSSO e si riuniva di nuovo in un unico ramo dietro a PALAZZO VIVAIO formando così un’isola. Sull’isola sorgevano degli edifici: PALAZZO ROSSO fatto costruire da Carlo Alberto Pizzardi. Il palazzo, opera dell’architetto Rubbiani, prende il nome dal colore della facciata. Al suo interno si trovano numerose pitture murali, soprattutto nella SALA DELLO ZODIACO che si apre su un grande balcone sul Navile in direzione di Bologna. IL MULINO con le macine che funzionano grazie alla forza dell’acqua del Navile. Vittorio Calanchi ricorda che negli anni 1930/40, i contadini delle campagne circostanti portavano il grano con i carri trainati dai buoi o i barrocci trainati dai cavalli. Il grano veniva immagazzinato nei granai situati nei piani superiori dell’edificio. Il sollevamento veniva fatto tramite nastri elevatori. Dapprima il grano veniva pulito e preparato per la macinazione, passava attraverso una macchina lava grano, successivamente veniva depositato in appositi cassoni dove restava per 24 ore poi iniziava la lavorazione: passava attraverso 7 cilindri di acciaio e diventava via via sempre più fine. I prodotti della macinazione erano: farina di tipo 0, doppio 00 e semolino di grano tenero. I sottoprodotti (destinati all’alimentazione degli animali) erano: la crusca, il cruschello e il farinaccio. La lavorazione del granoturco era molto più semplice: avveniva tramite una macina fatta di pietra speciale. Nel nostro mulino sono state funzionanti fino a 14 macine e in un anno sono stati macinati fino a 70.000 quintali di granoturco. A quei tempi la polenta era l’alimentazione più diffusa. I contadini tornavano a casa con la farina e gli altri prodotti che servivano per la famiglia e la produzione in eccedenza veniva venduta. Nel 1980 il mulino è andato in pensione, per la lavorazione del grano e del granoturco ora si utilizzano tecniche diverse, più moderne. LA PILA DEL RISO dove veniva pulito e brillato il riso che arrivava dalle risaie che circondavano Bentivoglio. Il riso veniva trasportato su barconi trainati da un robusto cavallo. Ora la parte adibita a pila da riso non la vediamo perché è crollata insieme a gran parte della torre del castello. Sono state minate e poi fatte esplodere dai tedeschi alla fine della II guerra mondiale con l’intento di ostruire con i calcinacci dei due edifici la Via Saliceto e ritardare così l’avanzata degli Alleati. UN PONTE GIREVOLE situato davanti al mulino che, quando era aperto, permetteva il passaggio delle barche e quando era chiuso il passaggio dei carri e delle persone. LE PARATOIE che venivano aperte e chiuse per regolare il livello dell’acqua e permettere così il passaggio delle barche. “I SUSTGNEN” dove le lavandaie andavano a lavare e risciacquare il bucato. IL PALAZZO DELL’OROLOGIO abitato da famiglie. Al piano terra c’era una ferramenta e la pesa pubblica. I CASETTI abitati da parecchie famiglie. Nara ricorda che vicino al muro del Canale c’era un alberone molto grande e un bel prato verde dove i bambini giocavano e le donne stendevano il bucato. IL PALAZZO VIVAIO, a tre piani, così detto per il gran numero delle persone che vi abitavano, fu fatto costruire da Carlo Alberto Pizzardi per i suoi dipendenti. Al piano terra c’era la falegnameria della famiglia Guidi dove si costruivano e si aggiustavano barche, mobili, carri, botti… e il fabbro con la fucina forgiava le parti in ferro per gli aratri, i carri, i calessi, le botti, le porte… Le cantine erano situate sotto al palazzo, mentre i granai erano in fondo a nord proprio dove i due rami del Navile si ricongiungevano in un unico corso per proseguire verso il fiume Reno.
Il Matrimonio del Centro sociale L'airone Il matrimonio é stato uno dei primi argomenti trattati duranti gli incontri di “Vecchi Amici in Comune” tra una tombola ed una merenda. Le interviste hanno riguardato esclusivamente signore, dopo 1940, in prevalenza negli anni tra il 1946 e la prima metà degli anni '50. Ecco cosa ci hanno raccontato. Il matrimonio avveniva per lo più in età compresa tra i 22 e i 25 anni per la sposa e tra i 24 ed i 28 anni per lo sposo. Non mancano nel nostro piccolo gruppo alcune eccezioni. Una sposa 17enne arrivata alle nozze del tutto ignara, che credeva di dover rientrare a casa propria a dormire la sera delle nozze, un'altra 17enne, tiranneggiata per lungo tempo dalla suocera, e una sposa ultra trentenne, cittadina e più indipendente, unica a fare il viaggio di nozze con lo sposo in automobile (fino a che la stessa non venne loro rubata, insieme a tutte le valigie). Ci si sposava prevalentemente in inverno, forse per non interferire con i lavori della campagna. Procedendo verso la fine degli anni '50 divenne tuttavia comune sposarsi anche nei mesi primaverili, Aprile in particolare, l’abito bianco si diffonderà solo verso la fine degli anni '50 e negli anni '60. Le nostre spose erano in prevalenza abbigliate con il “paletot”, il cappellino, la borsetta e, in qualche caso un “bouquet” di fiori. Il pranzo di nozze si teneva a casa della sposa, in alcuni casi si faceva festa poi anche a casa dello sposo. Il corredo era quasi sempre ricamato, a volte anche tessuto a mano dalle future spose. Il minimo consisteva in due lenzuola da sopra, due da sotto, quattro federe e qualche asciugamano. Qualcuna aveva solo una coppia di lenzuoli, ma chi si sposò più tardi, verso la fine degli anni '50, ebbe corredi più consistenti (12 di tutto, ovvero 12 lenzuoli in totale, 12 federe ecc). C'è anche chi, sposandosi a guerra non ancora terminata, uscì dalla casa paterna con i soli vestiti che aveva addosso. Nelle famiglie contadine era d'uso che la sposa andasse a risiedere presso la famiglia del marito, spesso in coabitazione con diverse altre coppie di sposi o con cognate e cognati ancora “single” e con la “suocera” . I rapporti con quest'ultima erano a volte buoni, a volte cattivi o pessimi. In ogni caso della “sposa” ci si attendeva che lavorasse attivamente in casa o nei campi, senza percepire alcun compenso. Il denaro era gestito dai suoceri e ciò penalizzava le giovani coppie. Succedeva così che la sposa dovesse rivolgersi alla famiglia di origine, per acquisti importanti, se questa aveva i mezzi per aiutarla. Una curiosità: ci è stata riferita un'usanza poco nota che le stesse spose non conoscevano: la prima notte di nozze la suocera entrava nella camera degli sposi a spegnere il lume, oppure in assenza della suocera, se non c'era più, era una cognata sposata a spegnere le candele agli sposi. Questa usanza viene già citata nello scritto di un letterato friulano “Delle superstizioni volgari in Friuli” del 1859: Così devi evitare di spegnere il lume della prima notte di matrimonio: chi primo degli sposi lo spegne primo morirà; per questo i rustici usano che una terza persona vada a prendere la lucerna dopo che essi sono a letto. Ci piace ricordare questa usanza che ha resistito centinaia di anni... prima di essere sconfitta dell'evento della luce elettrica.
La prima festa dell’uva, più di 60 anni fa del Centro Sociale L'Airone Abbiamo chiesto al nostro volontario Ugo Tosarelli di raccontarci come nacque la prima Festa dell'uva di Castenaso, manifestazione che nel 2015 ha compiuto 60 anni. Ecco il suo racconto. Nel 1954, quando ci fu la prima edizione della Festa dell'Uva, io avevo ventuno anni. La Giunta Comunale, che aveva deciso l'iniziativa, era allora guidata dal Sindaco Pietro Tosarelli, che era mio zio. La motivazione della festa era la raccolta di fondi per sostenere la Casa di Riposo Damiani che a quei tempi era situata vicino alla Stellina. Ricordo che fin dal primo anno, ed anche per diversi anni dopo, l'anima della festa fu il Segretario Comunale Aldo Turrini che, tra l'altro, coinvolse le Parrocchie e quindi anche quella della frazione in cui abitavo io, cioè Fiesso. Per questo mi prestai per collaborare. Centro della festa era la piazza del Municipio di Castenaso dove venivano collocate le cassette di uva regalate dai contadini. Lì avveniva la vendita diretta al pubblico. In qualche caso poi, noi giovani facevamo anche consegna a domicilio, alle famiglie che avevano fatto l'ordinazione. La prima edizione fu incentrata sulla vendita dell'uva, non ricordo ci fossero altri intrattenimenti. In una delle prime edizioni successive però si esibì, di pomeriggio, il coro della Parrocchia di Castenaso, sopra un palco provvisorio, costruito per l'occasione. Il coro era diretto dal Maestro Augusto Zaniboni, a quel tempo personaggio molto noto a Castenaso. Si trattava di un non vedente, molto apprezzato per le sue doti di suonatore di organo che ogni domenica risaltavano durante le celebrazioni in Chiesa. Io ho partecipato come volontario anche in anni successivi. Col tempo la festa si arricchì di diversi stand gastronomici, pesca di beneficenza e mercatino. Ricordo che tra i volontari si stabilì una certa suddivisione dei compiti, anche in base ai partiti di appartenenza, in quanto ciascuna area politica aveva le proprie attività specifiche. Col tempo queste divisioni, anche giustamente, sono andate perse. Però anche quando sussistevano, la collaborazione fu sempre buonissima. Nel corso degli anni la Festa dell'Uva si è arricchita di tante iniziative, compreso il mercato degli ambulanti. Ricordo che all'inizio ciò non era molto ben visto e ci furono parecchie discussioni in merito: molti pensavano che la gente, comprando alle bancarelle, non avrebbe poi speso i soldi negli stand dedicati alla beneficienza. La festa negli ultimi vent'anni è cresciuta a dismisura, anche per merito delle Associazioni ACACUS e successivamente, PROLOCO. Certo che, visto come era cominciata, chi mai avrebbe pensato che, dopo sessant'anni, la Festa dell'Uva ci sarebbe stata ancora e che avrebbe raggiunto le dimensioni attuali?
Una storia di classe. Liliana che desiderava il primo banco del Centro sociale L'Airone Sono nata a Bologna nel 1927 ed ho abitato per molto tempo in zona Andrea Costa, dove frequentai le scuole elementari Ernesto Masi, di viale Vicini. La mia maestra, la Signora Rosa, ci insegnava con slancio i valori fascisti, un po' per obbligo, un po' perché forse davvero ci credeva. A quell'epoca c'era grande rispetto per l'insegnante. In classe, quando non si scriveva, si stava ben diritte, con le braccia dietro la schiena, per parlare occorreva prima aver alzato la mano ed aver ottenuto il permesso. I banchi più prestigiosi erano quelli della prima fila, i più vicini alla cattedra. Le compagne che li occupavano non erano necessariamente le migliori in termini di profitto, ma avevano altre “qualità”; nella mia classe in prima fila c'era la figlia di un gioielliere, la figlia di un ottico e la sorella (o cugina) di quello che sarebbe poi diventato un famoso chirurgo bolognese. Chi sedeva nel primo banco aveva privilegi: per es. ricordo che dopo l'intervallo non era più permesso andare in bagno, ma le alunne della prima fila facevano un cenno con la mano e potevano andare. Se c'era il dettato, la maestra lo sospendeva finché non erano rientrate. Durante una rievocazione della Marcia su Roma, una mia compagna alzò la mano e disse che anche suo padre vi aveva partecipato. Anche lei ebbe poi l'onore del primo banco. Io non lo ebbi mai, benché lo abbia fortemente desiderato. Come tutte le bambine della scuola, ero una “piccola italiana” della 42° legione. Andavo ai raduni con la mia divisa, gonna nera a pieghe, blusa di piquet bianco, entrambe cucite dalle mie cugine sarte. Il problema sorse con la mantella di panno, da acquistare in un negozio di via indipendenza, che si era sempre chiamato OLD ENGLAND, ma che venne poi ribattezzato NUOVA ITALIA. Per l'acquisto della mantella, molto costosa, mia madre dovette chiedere soldi a prestito ai parenti di mio padre. La mantella venne poi rivenduta alla fine della 5a elementare, quando non serviva più. Con grande dispiacere della maestra e mio, non potei proseguire gli studi. All'età in cui si va in prima media mia madre mi mandò in una sartoria da uomo ad “imparare un mestiere”, come già avevano fatto le mie cugine maggiori, entrambe sarte per vocazione. Io non avevo alcuna passione per il cucito e avrei preferito, di gran lunga, fare la commessa, ma all'idea di vedermi con il grembiule nero, che si usava allora per le commesse, le donne di famiglia inorridivano e così dovetti adeguarmi alla volontà della maggioranza. Sono diventata camiciaia e almeno ho avuto per anni il piacere di vestire marito e figlio con camicie su misura, sempre perfette.
Una storia di classe. Liliana che desiderava il primo banco del Centro sociale L'Airone Sono nata a Bologna nel 1927 ed ho abitato per molto tempo in zona Andrea Costa, dove frequentai le scuole elementari Ernesto Masi, di viale Vicini. La mia maestra, la Signora Rosa, ci insegnava con slancio i valori fascisti, un po' per obbligo, un po' perché forse davvero ci credeva. A quell'epoca c'era grande rispetto per l'insegnante. In classe, quando non si scriveva, si stava ben diritte, con le braccia dietro la schiena, per parlare occorreva prima aver alzato la mano ed aver ottenuto il permesso. I banchi più prestigiosi erano quelli della prima fila, i più vicini alla cattedra. Le compagne che li occupavano non erano necessariamente le migliori in termini di profitto, ma avevano altre “qualità”; nella mia classe in prima fila c'era la figlia di un gioielliere, la figlia di un ottico e la sorella (o cugina) di quello che sarebbe poi diventato un famoso chirurgo bolognese. Chi sedeva nel primo banco aveva privilegi: per es. ricordo che dopo l'intervallo non era più permesso andare in bagno, ma le alunne della prima fila facevano un cenno con la mano e potevano andare. Se c'era il dettato, la maestra lo sospendeva finché non erano rientrate. Durante una rievocazione della Marcia su Roma, una mia compagna alzò la mano e disse che anche suo padre vi aveva partecipato. Anche lei ebbe poi l'onore del primo banco. Io non lo ebbi mai, benché lo abbia fortemente desiderato. Come tutte le bambine della scuola, ero una “piccola italiana” della 42° legione. Andavo ai raduni con la mia divisa, gonna nera a pieghe, blusa di piquet bianco, entrambe cucite dalle mie cugine sarte. Il problema sorse con la mantella di panno, da acquistare in un negozio di via indipendenza, che si era sempre chiamato OLD ENGLAND, ma che venne poi ribattezzato NUOVA ITALIA. Per l'acquisto della mantella, molto costosa, mia madre dovette chiedere soldi a prestito ai parenti di mio padre. La mantella venne poi rivenduta alla fine della 5a elementare, quando non serviva più. Con grande dispiacere della maestra e mio, non potei proseguire gli studi. All'età in cui si va in prima media mia madre mi mandò in una sartoria da uomo ad “imparare un mestiere”, come già avevano fatto le mie cugine maggiori, entrambe sarte per vocazione. Io non avevo alcuna passione per il cucito e avrei preferito, di gran lunga, fare la commessa, ma all'idea di vedermi con il grembiule nero, che si usava allora per le commesse, le donne di famiglia inorridivano e così dovetti adeguarmi alla volontà della maggioranza. Sono diventata camiciaia e almeno ho avuto per anni il piacere di vestire marito e figlio con camicie su misura, sempre perfette.
Bruna e il bambino Giuseppe Sassomorello, nell'Appennino modenese, comune di Prignano sulla Secchia, è dove sono nata nel luglio 1920, prima di nove fratelli. All'età di quattordici anni andai a servizio a Bologna, presso la famiglia di un insegnante dell'Accademia di Belle Arti e pittore, la cui moglie era amica della mia maestra. Prima di allora non ero mai uscita dal mio paese, il mio viaggio più lungo era stato andare a piedi da casa alla chiesa o alla scuola. Da Bologna fino a Sassomorello tra autobus, corriere e tratti a piedi ci voleva quasi un giorno di viaggio. Per questo andavo a casa solo di rado. In estate, quando i miei padroni andavano in vacanza al mare, mio padre mi mandava come mondina nella zona di Molinella, così potevo contribuire maggiormente al mantenimento della numerosa famiglia. Mentre io ero a servizio a Bologna, mio padre, abituato a decidere sempre di testa sua, pensò bene di prendere in affido un bambino dall'orfanotrofio, allora si diceva “dai bastardini”, perché così avevano fatto diverse famiglie del paese. C'era un compenso di quaranta lire (mensili?) per tenere questi bambini, cifra non trascurabile nel bilancio famigliare dell'epoca. Il bambino si chiamava Giuseppe. Aveva forse quattro anni quando venne in famiglia. Purtroppo era di salute cagionevole, aveva problemi di udito e continuava a bagnare il letto. Mia madre con tanti figli suoi, non poteva accudirlo come sarebbe stato necessario e d'altra parte la mia famiglia non aveva mezzi sufficienti per garantirgli le cure. Si decise perciò, dopo un anno di permanenza da noi, di portarlo in istituto. Tutto questo accadeva in mia assenza, ma mio padre attese una mia visita a casa per andare insieme a Modena a svolgere il doloroso compito. Partimmo in quattro, io, mio padre, un mio fratello che studiava in collegio a Modena e Giuseppe, che per tutto il viaggio restò attaccato alla mia gonna. Quando arrivammo in istituto dopo la sosta al collegio, mio padre si fermò in portineria ed io salii al piano superiore con il bambino. Pensavo di affidarlo ad un'assistente, ma questa, dopo avermi ascoltata, mi disse “lo lasci pur lì”, come se si fosse trattato di un pacco. Eravamo in una grande sala c'erano molti bimbi intorno ad un tavolo, io feci sedere Giuseppe e dissi “ Vedete bambini, questo é Giuseppe, prendetelo a giocare con voi” ed intanto distribuii delle caramelle che mi ero portata. I bambini si distrassero con le caramelle e Giuseppe con loro. Gli dissi che scendevo a prendere la valigia e fu l'ultima volta che lo vidi. In portineria mi aspettava mio padre in lacrime e mi disse che senza di me non ce l'avrebbe mai fatta. Mio padre si recò diverse volte in orfanotrofio a chiedere notizie di Giuseppe e seppe poi che era stato adottato da una coppia di negozianti, senza figli. Forse era andato a star bene. Mia sorella minore Anna, che gli era molto affezionata, avrebbe sempre voluto rintracciarlo, ma io non ero d'accordo, non volevo riaprire una ferita, che ancora oggi mi causa dolore. Meno di due anni dopo questo evento nacque il mio ultimo fratello. Io avevo giusto diciannove anni.