La scrittura del ricordo

Il pesce di Iole Sono nata a Rovello, sul fiume Po, in provincia di Ferrara nel 1927, primogenito di cinque fratelli. Eravamo contadini cosi detti “terziari”, cioè avevamo diritto ad 1/3 del raccolto, mentre 2/3 andavano al padrone del fondo. I miei si trasferirono a Bologna quando ero piccola ed è lì che sono nati alcuni dei miei fratelli. Abitavamo in zona Casteldebole, vicino ad un altro fiume, il Reno, che forniva occasioni di lavoro ed entrambi i miei genitori. Mio padre, per non aver voluto prendere la tessera del fascio, non aveva diritto ad un lavoro stabile e doveva accontentarsi di lavori occasionali, la mamma andava a lavare i panni in Reno ed io spesso l'accompagnavo per aiutarla. Un giorno che ero con la mamma al fiume, nell'acqua bassa, fra i sassi vidi un bel pesce che stentava a trovare l'uscita e, sotto la spinta dell'appetito, riuscii a catturarlo. Ero molto orgogliosa della mia preda e lo portai tutta trionfante alla mamma, perché lo cucinasse e potessimo mangiarcelo a pranzo. La mamma però non aveva l'olio per friggere il pesce e forse nemmeno la fantasia di cuocerlo in altro modo, tant'è che decise di venderlo, incurante della mia delusione e così il mio pesce se lo mangiò qualcun altro! Per fortuna da adulta non mi sono mancate le occasioni per mangiar pesce, ma mi rimane il rimpianto di non essermi potuta sfamare con l'unico da me catturato.
Storia di bovini in pace ed in guerra Sono nata del comune di Castel d'Aiano, sull'Appennino, tra le valli del Reno e del Panaro. I miei genitori erano mezzadri, lavoravano un appezzamento non molto grande, per metà tenuto a foraggio e per metà coltivato a granturco, grane e patate, avevano la stalla e poi c'era il bosco, in cima ad un monte, dove andavamo a raccogliere le castagne, che si mangiavano per diversi mesi invernali. Ricordo che una volta, avrò forse avuto quattro o cinque anni, ero con mia madre in un pascolo su un crinale molto scosceso. Mia madre vide due mucche che si spingevano e cozzavano con le corna ed ebbe paura che nello spingersi una rotolasse giù per la scarpata. Mi disse perciò di andare a separarle. Mi misi in mezzo a loro e le incitai ad allontanarsi. Una delle due si spostò agevolmente, l'altra, che aveva poco spazio, nel girare su se stessa mi pestò un piede scalzo con lo zoccolo. Mi misi a piangere perché il piede mi faceva male. Mia madre, poco incline alla tenerezza, non si diede pena e mi esortò ad alzarmi e proseguire. La mucca però, sentendo i miei strilli, tornò indietro, mi annusò il piede e me lo leccò, dimostrandosi così più sensibile della mia mamma. Castel d'Aiano, nel 1944 – 45 fu teatro di guerra, trovandosi proprio sulla Linea Gotica. La mia famiglia abitava nella frazione di Villa d'Aiano, che si trova un po' più in basso, verso la valle del Panaro. Per diversi mesi, nell'inverno del 1945, quando già gli alleati avevano liberato Castel d'Aiano, la frazione di Villa d'Aiano rimase sotto occupazione tedesca. I tedeschi obbligavano spesso contadini a scavare trincee e fossati difensivi, a trasportare materiale ed altri servizi. Molto preziosi erano i carri trainati da buoi, mezzo principale di spostamento di famiglia e masserizie, spesso oggetto di requisizioni. Un giorno i tedeschi vennero a casa nostra per requisire delle bestie da macellare e presero due vacche romagnole che erano l'orgoglio di mia madre per quante erano belle e forti nel tirare il barroccio. Mia madre pianse e supplicò, chiese che scegliessero piuttosto altre bestie, ma non ci fu niente da fare. Non si diede tuttavia per vinta, il giorno dopo portò con sé un vitello ed andò a piedi al comando tedesco a proporre uno scambio, sconsigliato da mio padre che riteneva le vacche già macellate ed il viaggio inutile. Quando arrivò a destinazione, c'era già aria di smobilitazione: i tedeschi stavano partendo in tutta fretta e non avevano avuto il tempo di occuparsi delle vacche, affidate ad un contadino. Nemmeno lo scambio con il vitello li interessava più perché non avrebbero saputo dove caricarselo. Fu così che la tenacia di mia madre venne premiata; ritornò a casa con le due vacche romagnole e con il vitello. Il padrone la lodò molto e disse che si era proprio meritata di tenersela tutte per sé, salvo poi dimenticare la promessa quando, alla fine dell'anno, a guerra terminata, si trattò di fare i conti.
Monarchia vs Repubblica Il 2 Giugno 2016 ricorre il 70° anniversario della Repubblica Italiana. In realtà già nei giorni che seguirono l'8 settembre 1943, metà dell'Italia cessò di essere sotto la monarchia dei Savoia e venne governata dalla Repubblica Sociale Italiana o direttamente amministrata dai comando militare tedesco come “Adriatisches Kustenland”. Orazio Lolli classe 1917, ci racconta la sua esperienza in quei giorni cruciali. L'8 settembre 1943, quando finì il mio servizio militare, avevo ventisei anni. Il 24 maggio 1938, soldato di leva, ero stato arruolato nel genio ferrovieri. In primo luogo mi fecero frequentare un corso a Torino dove ottenni la qualifica di “addetto ai freni, scambi e manovre”. Subito dopo fui assegnato al deposito personale viaggiante di Chivasso. Nel 1939, trascorso il periodo della leva, avrei dovuto essere congedato, ma a seguito dei venti di guerra che si erano levati dopo l'occupazione della Polonia, mi fecero rientrare in caserma a Torino. Nel 1940 entrammo in guerra e fui inviato a Mentone, sul fronte francese, a costruire dei ponti. Dopo tre mesi rientrai a Torino, Caserma Cavour. Il 28 ottobre 1940, a seguito dell'inizio della guerra con la Grecia, fui assegnato al fronte in Albania, al porto di Valona. Lì esistevano solo ferrovie a scartamento ridotto e noi soldati fummo incaricati di attrezzarle per lo sbarco dalle navi di viveri, armi e soldati. Il nostro reparto fu anche incaricato di costruire ponti al fronte. Terminata la guerra di Grecia e iniziata l'occupazione italiana, fummo poi trasferiti in Macedonia. Anche in questo caso ci occupavano di gestire le ferrovie da Strugana Skopje, facendo base a Kicevo. Dopo un mese, fui trasferito in Dalmazia, a Zelenica, e di qui, in piena estate 1941, a Durazzo per rientrare in Italia. Intanto era scoppiata la rivolta in Montenegro e io fui inviato, invece che in Italia, a Podgoritza (poi Titograd) sempre per seguire la ferrovia da Planiza sul Lago di Scutari a Podgoritza. Verso novembre ebbi una licenza di un mese e tornai a Porretta. Nel febbraio 1942, dopo che ero tornato a Podgoritza, fui trasferito a Lubiana e, in seguito, in una stazione lungo la linea che da Fiume va a Zagabria. Da qui fui spostato a Fiume su quello che era chiamato “treno a legna” in quanto serviva a trasportare legname per rifornire di combustibile le cucine da campo. C'era stato anche un intermezzo di quindici giorni, aIvrea, per ottenere la qualifica di capotreno. A giugno 1943 rientrai definitivamente in Italia, nella caserma di Borgofranco. La nostra compagnia era in formazione per andare nel Mezzogiorno d'Italia. Ma intanto venne il 25 luglio, con la caduta del Governo Mussolini, e successivamente l'8 settembre, con il proclama di Badoglio, che alla radio annunciava la fine delle ostilità contro gli anglo – americani. Il giorno 10 settembre ci vennero ritirate le armi. La sera di quello stesso giorno gli Ufficiali e i Sottufficiali fuggirono in Svizzera e la mattina successiva noi soldati ci ritrovammo sbandati, senza comando. Io ed altri tre compagni, la sera del 12 decidemmo di fuggire. Trovammo vestiti borghesi e lasciammo le divise. Prendemmo il treno diretto a Chivasso. Lì cambiammo e salimmo sul treno diretto a Milano. A Lambrate salutai i commilitoni e salii sul treno per Bologna. Scesi a Lavino per evitare i controlli della stazione di città. Di lì, a piedi, la mattina del 13 settembre arrivai a Borgo Panigale e presi il treno per Porretta. Bisognava infatti essere molto attenti perché, se fossi stato individuato dai tedeschi o dagli italiani rimasti fedeli al fascismo, correvo seriamente il rischio di essere fermato e spedito in Germania. Fortunatamente sfuggii a ogni posto di blocco e ritornai a casa dalla mia famiglia. Quello che successe poi, come dicono nei libri, “è un'altra storia” e la si dovrà raccontare un 'altra volta..
Aprile 1945: L'ultima cruenta battaglia Uno degli incontri del progetto “Vecchi Amici in Comune 2015” ha avuto luogo presso la sala del Consiglio Comunale, dove il gruppo di anziani ed i volontari sono stati ospiti degli Assessori Renzi e Tonelli. La mattinata è stata dedicata alla rievocazione della battaglia che si svolse il 18 ed il 19 Aprile 1945 lungo le sponde del torrente Gaiana, poco lontano da Castenaso. Il programma prevedeva una testimonianza ed un filmato dedicati a quei tragici avvenimenti. Durante quei due giorni, dell'Aprile 1945, dopo aver sfondato la Linea Gotica, le truppe alleate che intendevano liberare la Pianura padana incontrarono la resistenza di due reggimenti di paracadutisti tedeschi ed i combattimenti particolarmente sanguinosi che seguirono provocarono decine di morti, molti dei quali riposano sotto le bianche croci del cimitero polacco di San Lazzaro. Infatti furono proprio i polacchi, alla fine, a sfondare le linee tedesche ed a continuare l’avanzata verso Bologna, che sarà liberata il 25 aprile 1945. Fin qui la descrizione dell'evento bellico. Ma ricordate che a fianco dell'accadimento militare, che coinvolge gli eserciti, ci sono sempre le tragedie della gente comune: ci pensa la testimonianza di Luciano Zanotto. E' un distinto signore, oggi ottantaduenne, undicenne all'epoca dei fatti. Il suo racconto è in parte ripreso dal filmato ed è anche riportato in un volumetto che ha voluto scrivere a beneficio di chi verrà dopo di lui. Non nasconde l'emozione Luciano, nel raccontare una storia che ha già narrato tante volte e che ancora, confessa, rivive in sogno. E' la storia vista con gli occhi di un ragazzino la cui famiglia, trasferita in Emilia dal Veneto, viveva nella dignitosa povertà che caratterizzava la maggior parte della gente a quel tempo. C'è la guerra e, pensando di rifugiarsi in un luogo più sicuro, Luciano e i suoi vanno a stabilirsi in un'abitazione che finisce nel bel mezzo del conflitto tra due eserciti. Il padre, la madre, e i quattro figli, oltre alla famiglia dello zio, si trovano infatti in una zona occupata dai tedeschi che si trasforma ben presto in obiettivo strategico per gli alleati. L'esistenza quotidiana, una stentata sopravvivenza, è per di più segnata dalla difficile convivenza con l'esercito occupante fino a quando la stalla in cui si rifugiano, dopo il bombardamento della loro già precaria precedente sistemazione, viene centrata da due granate sparate dagli alleati. E' l'inferno. Una cugina muore tra le fiamme dell'incendio senza che nessuno riesca a trascinarla fuori, una sorella viene gravemente ferita al volto, la madre ha un buco in fronte, un'altra cugina la gamba squarciata. Il padre corre a cercare lenzuola per fasciare i feriti ma viene colpito a morte. E poi ancora pericoli e difficoltà per chi è sopravvissuto. In definitiva la narrazione rappresenta, in maniera esemplare, cosa accade alla popolazione civile durante un conflitto e ci mostra nel modo, più diretto e più crudo, cosa sono gli “effetti collaterali” della guerra. Io, che scrivo, sono nato nel 1950 e quindi sono entrato nell'età anagrafica che mi rende “anziano”. Gli anni che mi separano da Luciano non sono tanti ma non ho mai vissuto situazioni neppure lontanamente paragonabili a quelle che gli hanno segnato la vita. Penso di essere di una generazione fortunata: la prima che non ha mai subito una guerra. ...Poi passano alcuni giorni da quando ho scritto queste note ed arriva il maledetto lunedì 13 Novembre 2015, gli attentati a Parigi e tutto il resto. Forse anche noi adesso siamo in guerra. Una guerra diversa: i civili non ne ricevono più le offese per via degli “effetti collaterali”, adesso sono proprio loro l'obiettivo.
La suocera dispotica Mi è stato chiesto se avevo una foto del mio matrimonio da portare. Ma chi le ha fatte le foto per il matrimonio? Noi certo no. Avevo diciassette anni quando mi sono sposata nel gennaio 1954, già in attesa della mia primogenita. Sia io che mio marito, quasi mio coetaneo, abitavamo in provincia di Ferrara, a Tàmara, vicino a Copparo. Mia suocera era vedova con due figli maschi, il maggiore era sposato fuori, quindi quando andai in famiglia eravamo inizialmente noi tre: io, mio marito e la suocera. Madre e figlio avevano un rapporto molto stretto, mio marito non si azzardava a contraddire la madre e la temeva almeno quanto la temevo io. La convivenza è stata per me un vero castigo: non ricordo una parola gentile, men che meno un apprezzamento per qualcosa che avevo fatto: sbagliavo sempre tutto e benché faticassi tanto, non facevo mai abbastanza. Non c'erano festività da rispettare con il riposo, bisognava andare a far legna anche il 1° giorno dell'anno. Era mia suocera a gestire tutti gli introiti del lavoro mio e di mio marito e dovevamo rivolgerci a lei per qualsiasi spesa, questo non solo finché restammo contadini, ma anche dopo il trasferimento a Ferrara, quando trovammo entrambi un impiego fuori casa. Madre di due bambini ed operaia in fabbrica, non avevo nessuna autonomia di spesa e dovevo chiedere i soldi alla suocera per ogni minimo acquisto. L'unico punto debole dell'inflessibile donna era l'amore per i nipoti. Devo ammettere che era una nonna affettuosa ed io ne approfittavo mandando la mia bambina a chiederle i soldi per il gelato, così la domenica potevamo permetterci questo piccolo lusso senza doverci umiliare. La mia pena è durata diciotto anni, più di certe condanne per omicidio e si è conclusa solo con la dipartita della mia carceriera. Il terrore che mi incuteva il suo sguardo non è però scomparso con lei: nei primi tempi, quando andavo al cimitero, la sola foto sulla lapide era sufficiente ad evocare in me l'antica paura ed a mettermi a disagio, tanto che spesso coprivo la foto con un fazzoletto, per il tempo necessario a sistemare i fiori e rassettare la tomba. Adesso posso riderci sopra, ma ho passato davvero momenti difficili.
Progetti e luoghi di inclusione sociale I Centri Sociali sono una realtà da tempo consolidata nei nostri territori. Nacquero per una scelta delle amministrazioni comunali, che avevano capito come la solidarietà tra ente e cittadinanza si compia attraverso iniziative che li vedano coinvolti insieme. Come si riesce a coinvolgere i cittadini? E' sufficiente che i volontari raccolgano le istanze, le sollecitazioni e le esigenze che essi esprimono. I Centri collaborano con l'Ente locale e con altre associazioni, per la realizzazione di iniziative di interesse comune. I Centri Sociali sono alla ricerca continuamente di relazioni concrete e solidali tra le generazioni. Possiamo affermare che i Centri sono sempre più un punto importante di riferimento per tutti quelli che promuovono iniziative sulla tutela della salute, dell'ambiente, della cultura e, principalmente, l'impegno contro l'isolamento delle persone anziane e sole. Per quanto riguarda il Centro Sociale di Villanova, tutto ciò che veniva auspicato, è stato messo in atto. Non solo anziani, ma anche rapporti diretti con gli alunni delle scuole materne e elementari: da noi “vecchi” l'esperienza, da loro “giovanissimi” un soffio di vitalità. Lo SPI - CGIL di Castenaso partecipa alla conduzione dell’iniziativa “Vecchi Amici in Comune” assicurando il contributo volontario di due iscritte. Da sempre, come SPI - C.G.I.L, tuteliamo i diritti dei pensionati, associando a questa azione anche svariate forme di sostegno ai soggetti più deboli della nostra società. Gli anziani ultra-ottantenni, privi di sostegno familiare, sono indubbiamente a rischio fragilità. Ecco allora come poterli sostenere, monitorare e dare a loro un piccolo aiuto, anche attraverso una semplice telefonata, costituisce sicuramente un lodevole modo di stare loro vicini, aiutandoli a coltivare un sentimento di inclusione nel tessuto sociale. Questo, in sintesi, è il motivo che ci fa condividere con altre associazioni, questa importante iniziativa. L'augurio è quello di vedere crescere l'iniziativa, in qualità di volontari e qualità dell'aiuto, consapevoli che riaffermare la dignità dei “Vecchi” può aiutarci a tenere vivi i principi di umanità e solidarietà ai quali vogliamo ispirarci.
Dodici mamme di Dicenta Severina Dodici mamme sopra una panca stavan facendo una cuffia bianca una cuffietta con tanti fiocchi dodici cuffie per i marmocchi Per i marmocchi non giunti ancora ma che ben presto fosse aurora avrebbe messo un capino biondo in faccia al sole in faccia al mondo. Dormon tutti dentro una cuna[1] dodici bimbi guardan la luna la candeluccia si sta smorzando[2] dodici mamme stanno vegliando dodici veglie, preghiere a Dio “Dio buono vigila il bimbo mio”. Passano i giorni e passano gli anni passano le fasce, le cuffie e i panni spuntano i denti un giorno in fretta, il nome mamma si balbetta si chiede al babbo la minestrina e un po’ per volta poi si cammina. Passano gli anni velocemente restan le mamme che amaramente pensano quando lì sui ginocchi dondorellavano i bei marmocchi. Un giorno scuotesi tutta la terra romba il cannone Questa è la guerra ! Dodici mamme son trepidanti perché partono i dodici fanti. Dodici vecchie sopra una panca come la neve la testa è bianca dodici vecchie testine bianche vegliano sempre e mai son stanche dodici mamme e dodici cuori Dodici affetti mille dolori Dodici pianti Dodici attese nessun ritorno. Dodici mamme stanno vegliando Dodici veglie preghiere a Dio “Dio buono vigila il bimbo mio” Ninna nanna ninna oh Ninna nanna ninna oh. [1]Culla [2]Spegnendo
Un pericolo per il mio corredo di Angiolina Poli Io avevo venticinque anni durante la Seconda Guerra Mondiale, con la mia famiglia dovemmo sfollare lungo la Valle dell'Idice (quella che porta a Monterenzio e Monte delle Formiche). Insieme ad altri sfollati scoprimmo una vecchia fornace in disuso, così pensammo di seppellire le nostre cose migliori o la roba a cui tenevamo di più. Io nascosi il mio corredo sapendo che mi dovevo sposare al termine della guerra. Eravamo abbastanza tranquilli perché in questa valle dicevano che non ci sarebbero stati dei bombardamenti perché era stretta, ma i tedeschi ritirandosi si appostarono in tutte le case coloniche disponibili. Intanto dall'altra parte del fiume Idice presso un contadino si appostò con il telegrafo un piccolo comando tedesco. Furono scoperti dagli americani che un giorno vennero a bombardare. Io mi trovavo proprio sotto la linea di fuoco col mio babbo dopo aver recuperato il mio corredo. Vedevo le bombe sganciate dall'aereo. Colpirono proprio quel comando. Rimasero seppelliti due tedeschi. Il comandante radunò tutti gli uomini in grado di scavare, tra cui mio padre, e quando finalmente scoprirono i corpi ci lasciarono liberi di riprendere la strada del ritorno, sempre col carrettino che aveva in cima il mio corredo. Arrivammo a Bologna, dove trovammo un commando tedesco che non permise di entrare in città durante il coprifuoco, dalle sette di sera alle sette del mattino. Stremati per tutta la strada fatta a piedi, sempre col mio corredo e con il cuore in gola tornammo indietro. Ripercorremmo la Valle dell'Idice, dove fortunatamente trovammo una casa colonica e chiedemmo ospitalità. Entrammo in una grande cucina, mi ricordo che loro avevano già finito di cenare, ci offrirono un po’ di pane e un bicchiere di vino, ma non avevano letti perché ospitavano già i tedeschi. L'unica soluzione erano le due seggiole vicine accostate al focolare con le braci ancora accese. Io e mio babbo ci abbracciammo, in attesa di passare la notte, ma all'improvviso sentimmo qualcuno scendere dalle scale; era un ufficiale tedesco che ci salutò con una battuta di tacchi, si accostò ad un pianoforte e suonò alcune melodie, Rosamunda e Lilì Marleen. Arrivò il mattino, riprendemmo la strada del ritorno e finito il coprifuoco potemmo finalmente entrare nelle porte di Bologna. Il mio fidanzato tornò dalla prigionia e ci sposammo. La prima notte di nozze misi la mia camicia da notte più bella, le lenzuola ricamate al calore di un caminetto acceso. Dopo tante peripezie questo corredo ha trovato la sua sistemazione e ci ha fatto compagnia nelle occasioni più belle della mia famiglia: nascite, matrimoni, battesimi. Il corredo si è consumato felicemente. Io sono ancora qui all'età di novantasei anni con mio figlio minore, felice di questi ricordi.
I miei vecchi ricordi di Lucia Minelli La mia casa era grande e mio padre regalò un salone al Comune in cui fu allestita una scuola e la maestra era mia nonna. Così io avevo la scuola in casa, purtroppolì ho frequentato solo la 1° elementare perché mio papà fu chiamato per costruire la Direttissima, una linea di autostrada che faceva il tragitto S. Benedetto Val di Sambro-Bologna.
La Camera che profuma di mele di Stefania Monari Sono nata in America, non so di preciso il paese. Quando avevo pochi mesi mi hanno portato in Italia dove ho vissuto per tre anni in un brefotrofio di Bologna. Qui ricordo che veniva un signore che mi portava dei giocattoli e dei vestiti (perché noi avevamo veramente poco, addirittura niente). All'età di tre anni questo signore e la moglie mi portarono in una grande casa e divennero il mio babbo e la mia mamma. In questa casa c'era una cucina grandissima dove il babbo mise un letto dal momento che io ero sempre ammalata, per non farmi prendere freddo perché a quei tempi le case non erano riscaldate e per andare a letto bisognava fare fuoco. Un ricordo molto bello è una stanza che profumava di mele acerbe perché il papà durante l'inverno faceva scorta di mele e di patate e le riponeva in questa stanza dove io giocavo con i vestiti della mamma. La vita scorreva felice in questa casa, un po’ solitaria perché il papà era molto geloso e non mi faceva giocare con gli altri bambini, però un’amichetta c'era e si chiamava Angela adottata lo stesso giorno in cui fui adottata io. Il ricordo che ho di lei è il suo cavallo a dondolo e il profumo della cioccolata in tazza che la sua mamma ci preparava per la merenda al pomeriggio. Abitava nella casa di fronte. Ci vedevamo dalla finestra. Un giorno la vidi che saliva su una seggiola in bagno e si tagliò i capelli. Io la chiamai e così la sua mamma si accorse di quello che aveva fatto. Passando il tempo abbiamo cambiato casa, con i miei genitori siamo diventati più ricchi e la vita è cambiata. Andai a scuola a cinque anni e mezzo e conobbi un’altra bimba di nome Frida che diventò nella mia vita la mia migliore amica. Frequentammo le scuole insieme, avuto i primi amori insieme. Al telefono, per non far capire ai nostri genitori che parlavamo di ragazzi avevamo dato loro dei soprannomi, il mio ragazzo Il e il suo ragazzo Lo . Divenute più grandi, a diciassette anni, un bel giorno mi accorsi di aspettare un bimbo da Il . I miei genitori si preoccuparono per mio stato di salute non ottimale e quindi passai la gravidanza a letto. Al quarto mese fui ricoverata in clinica per complicazioni, dove rimasi fino al giorno del parto, avvenuto prima dei sette mesi. Il bambino andò in incubatrice ma era forte e ce la fece. Purtroppo poi si ammalò di leucemia. Nel frattempo il padre Il morì della stessa malattia. Dopo poco tempo anche il bimbo se ne andò. Le uniche parole di mio padre furono “Vieni Stefania è nato un angelo”. Mi riportò a casa e cercò in tutti i modi di farmi vivere una vita normale. Con molta fatica ricominciai a vivere, ancora non sapevo che da lì a poco tempo un’altra persona mi avrebbe lasciata. Il mio babbo adorato. Finalmente un giorno molto bello arrivò, incontrai un uomo del quale mi innamorai perdutamente e lui di me. Abbiamo trascorso molti anni insieme, vivendo giorno per giorno. Mi ha insegnato a vivere in modo diverso a vedere le cose belle della vita. Io ho ripreso gli studi, mi sono laureata e ho cominciato a lavorare nel mio negozio. Lo stesso negozio del mio babbo. La vita mi ha riservato dispiaceri, riprese felici, ricadute, ma ho saputo rialzarmi e sorridere a quello che mi veniva dato giorno dopo giorno. Oggi quando mi chiedono se solo felice rispondo “Il mio amore non c'è più ma so che sarò sempre insieme a lui perché lo sento vicino e questo mi rende felice, come ero felice quando sentivo da bambina il profumo delle mele acerbe”.
Il mercato delle erbe di Roberto Passini - tratto da La scrittura del ricordo Stampa Email Il giorno che mia madre non sapeva dove lasciarmi, e dovendo andare a fare la spesa, mi portò in centro, e per la prima vola al Mercato delle Erbe. Un breve aneddoto che mi è stato riportato più tardi, vuole che strada facendo, camminando sotto un portico, vidi appesi al centro delle arcate, delle plafoniere; guardandole esclamai: “Guà mama i peren di violen” dove per vìolen si intende gli orinali da notte. Ed ecco che allora, in quel luogo magnifico, di sogno, da quella cornucopia dell’abbondanza, scaturivano promesse di ogni genere. Solo la vista di merci sconosciute: frutta, verdure e derrate varie, scaldava il cuore. Lo sguardo roteava all’intorno, non sapendo dove fermarsi, carezzando quelle cose mai viste e nemmeno immaginate. Tutto questo mondo mi si offriva all’improvviso. Tutto in una volta. La conoscenza delle cose, in genere, negli anni precedenti era stata oggettivamente poca, per le cause sopra descritte. In quel luogo, allora, oltre alla vista si scatenava la ridda dei profumi. Odori mai sentiti prima: l’odore del caffè tostato, ben diverso da quello del surrogato “Miscela Leone”, delle patate americane dolci cotte al forno, e dei datteri; su tutti sovrastava l’odore della “Forma” oggi Parmigiano, e della vaniglia ma una classifica vera non potrei farla… Osservando tutt’attorno le merci, notavo sui banconi enormi vasi di vetro contenenti sottaceti profumati, salumi in grande varietà di colori, forme e dimensioni, pronti ad essere passati al filo della “Berkel”; immensa, rossa, con un volano che associavo sempre a quello della 500 Guzzi; enorme che ruotando velocemente procedeva un magico “tic”; segnale che una fetta si adagiava nella carta oleata, tracciando così nell’aria quella scia fragrante da pifferaio magico. L’avrei seguita dovunque. Enormi vesciche gonfie di strutto; e formaggi grandi e piccoli e vasche di stracchino morbido col suo bravo cucchiaione infilato nella crema; e latte grandi aperte di tonno sott'olio e del più economico sgombro, e sarde, e alici. E il cioccolato spalmabile, precursore della Nutella, anch’esso in grandi contenitori rotondi, fatti di strati di legno di pioppo; e spezie tra cui cannella e chiodi di garofano. Tutto ciò invadeva e permeava le narici, che si ritraevano schifate non appena con la mamma attraversavo il reparto del pesce. Ma poi, tutto sommato, anche quello contribuiva alla somma di questo meraviglioso amalgama. Da perdere la testa. E così, intanto che volavo in quel paradiso, finalmente il commesso da dietro i suoi occhialini guardando mia madre, chiedeva: a lei signora cosa posso dare? Debolmente la risposta era: mezzo chilo di farina, per favore… grazie… Ancora oggi rimpiango quel tipo di negozio dove i prodotti, tutti si può dire, erano a cielo aperto; purtroppo a causa di norme igieniche ora tutto è confezionato e asettico, così il desiderio di acquisto non è più sospinto dai profumi, ma dalla mera necessità di un dato prodotto.