La scrittura del ricordo

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La suocera dispotica Mi è stato chiesto se avevo una foto del mio matrimonio da portare. Ma chi le ha fatte le foto per il matrimonio? Noi certo no. Avevo diciassette anni quando mi sono sposata nel gennaio 1954, già in attesa della mia primogenita. Sia io che mio marito, quasi mio coetaneo, abitavamo in provincia di Ferrara, a Tàmara, vicino a Copparo. Mia suocera era vedova con due figli maschi, il maggiore era sposato fuori, quindi quando andai in famiglia eravamo inizialmente noi tre: io, mio marito e la suocera. Madre e figlio avevano un rapporto molto stretto, mio marito non si azzardava a contraddire la madre e la temeva almeno quanto la temevo io. La convivenza è stata per me un vero castigo: non ricordo una parola gentile, men che meno un apprezzamento per qualcosa che avevo fatto: sbagliavo sempre tutto e benché faticassi tanto, non facevo mai abbastanza. Non c'erano festività da rispettare con il riposo, bisognava andare a far legna anche il 1° giorno dell'anno. Era mia suocera a gestire tutti gli introiti del lavoro mio e di mio marito e dovevamo rivolgerci a lei per qualsiasi spesa, questo non solo finché restammo contadini, ma anche dopo il trasferimento a Ferrara, quando trovammo entrambi un impiego fuori casa. Madre di due bambini ed operaia in fabbrica, non avevo nessuna autonomia di spesa e dovevo chiedere i soldi alla suocera per ogni minimo acquisto. L'unico punto debole dell'inflessibile donna era l'amore per i nipoti. Devo ammettere che era una nonna affettuosa ed io ne approfittavo mandando la mia bambina a chiederle i soldi per il gelato, così la domenica potevamo permetterci questo piccolo lusso senza doverci umiliare. La mia pena è durata diciotto anni, più di certe condanne per omicidio e si è conclusa solo con la dipartita della mia carceriera. Il terrore che mi incuteva il suo sguardo non è però scomparso con lei: nei primi tempi, quando andavo al cimitero, la sola foto sulla lapide era sufficiente ad evocare in me l'antica paura ed a mettermi a disagio, tanto che spesso coprivo la foto con un fazzoletto, per il tempo necessario a sistemare i fiori e rassettare la tomba. Adesso posso riderci sopra, ma ho passato davvero momenti difficili.
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Progetti e luoghi di inclusione sociale I Centri Sociali sono una realtà da tempo consolidata nei nostri territori. Nacquero per una scelta delle amministrazioni comunali, che avevano capito come la solidarietà tra ente e cittadinanza si compia attraverso iniziative che li vedano coinvolti insieme. Come si riesce a coinvolgere i cittadini? E' sufficiente che i volontari raccolgano le istanze, le sollecitazioni e le esigenze che essi esprimono. I Centri collaborano con l'Ente locale e con altre associazioni, per la realizzazione di iniziative di interesse comune. I Centri Sociali sono alla ricerca continuamente di relazioni concrete e solidali tra le generazioni. Possiamo affermare che i Centri sono sempre più un punto importante di riferimento per tutti quelli che promuovono iniziative sulla tutela della salute, dell'ambiente, della cultura e, principalmente, l'impegno contro l'isolamento delle persone anziane e sole. Per quanto riguarda il Centro Sociale di Villanova, tutto ciò che veniva auspicato, è stato messo in atto. Non solo anziani, ma anche rapporti diretti con gli alunni delle scuole materne e elementari: da noi “vecchi” l'esperienza, da loro “giovanissimi” un soffio di vitalità. Lo SPI - CGIL di Castenaso partecipa alla conduzione dell’iniziativa “Vecchi Amici in Comune” assicurando il contributo volontario di due iscritte. Da sempre, come SPI - C.G.I.L, tuteliamo i diritti dei pensionati, associando a questa azione anche svariate forme di sostegno ai soggetti più deboli della nostra società. Gli anziani ultra-ottantenni, privi di sostegno familiare, sono indubbiamente a rischio fragilità. Ecco allora come poterli sostenere, monitorare e dare a loro un piccolo aiuto, anche attraverso una semplice telefonata, costituisce sicuramente un lodevole modo di stare loro vicini, aiutandoli a coltivare un sentimento di inclusione nel tessuto sociale. Questo, in sintesi, è il motivo che ci fa condividere con altre associazioni, questa importante iniziativa. L'augurio è quello di vedere crescere l'iniziativa, in qualità di volontari e qualità dell'aiuto, consapevoli che riaffermare la dignità dei “Vecchi” può aiutarci a tenere vivi i principi di umanità e solidarietà ai quali vogliamo ispirarci.
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Dodici mamme di Dicenta Severina Dodici mamme sopra una panca stavan facendo una cuffia bianca una cuffietta con tanti fiocchi dodici cuffie per i marmocchi Per i marmocchi non giunti ancora ma che ben presto fosse aurora avrebbe messo un capino biondo in faccia al sole in faccia al mondo. Dormon tutti dentro una cuna[1] dodici bimbi guardan la luna la candeluccia si sta smorzando[2] dodici mamme stanno vegliando dodici veglie, preghiere a Dio “Dio buono vigila il bimbo mio”. Passano i giorni e passano gli anni passano le fasce, le cuffie e i panni spuntano i denti un giorno in fretta, il nome mamma si balbetta si chiede al babbo la minestrina e un po’ per volta poi si cammina. Passano gli anni velocemente restan le mamme che amaramente pensano quando lì sui ginocchi dondorellavano i bei marmocchi. Un giorno scuotesi tutta la terra romba il cannone Questa è la guerra ! Dodici mamme son trepidanti perché partono i dodici fanti. Dodici vecchie sopra una panca come la neve la testa è bianca dodici vecchie testine bianche vegliano sempre e mai son stanche dodici mamme e dodici cuori Dodici affetti mille dolori Dodici pianti Dodici attese nessun ritorno. Dodici mamme stanno vegliando Dodici veglie preghiere a Dio “Dio buono vigila il bimbo mio” Ninna nanna ninna oh Ninna nanna ninna oh. [1]Culla [2]Spegnendo
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Il mercato delle erbe di Roberto Passini - tratto da La scrittura del ricordo Stampa Email Il giorno che mia madre non sapeva dove lasciarmi, e dovendo andare a fare la spesa, mi portò in centro, e per la prima vola al Mercato delle Erbe. Un breve aneddoto che mi è stato riportato più tardi, vuole che strada facendo, camminando sotto un portico, vidi appesi al centro delle arcate, delle plafoniere; guardandole esclamai: “Guà mama i peren di violen” dove per vìolen si intende gli orinali da notte. Ed ecco che allora, in quel luogo magnifico, di sogno, da quella cornucopia dell’abbondanza, scaturivano promesse di ogni genere. Solo la vista di merci sconosciute: frutta, verdure e derrate varie, scaldava il cuore. Lo sguardo roteava all’intorno, non sapendo dove fermarsi, carezzando quelle cose mai viste e nemmeno immaginate. Tutto questo mondo mi si offriva all’improvviso. Tutto in una volta. La conoscenza delle cose, in genere, negli anni precedenti era stata oggettivamente poca, per le cause sopra descritte. In quel luogo, allora, oltre alla vista si scatenava la ridda dei profumi. Odori mai sentiti prima: l’odore del caffè tostato, ben diverso da quello del surrogato “Miscela Leone”, delle patate americane dolci cotte al forno, e dei datteri; su tutti sovrastava l’odore della “Forma” oggi Parmigiano, e della vaniglia ma una classifica vera non potrei farla… Osservando tutt’attorno le merci, notavo sui banconi enormi vasi di vetro contenenti sottaceti profumati, salumi in grande varietà di colori, forme e dimensioni, pronti ad essere passati al filo della “Berkel”; immensa, rossa, con un volano che associavo sempre a quello della 500 Guzzi; enorme che ruotando velocemente procedeva un magico “tic”; segnale che una fetta si adagiava nella carta oleata, tracciando così nell’aria quella scia fragrante da pifferaio magico. L’avrei seguita dovunque. Enormi vesciche gonfie di strutto; e formaggi grandi e piccoli e vasche di stracchino morbido col suo bravo cucchiaione infilato nella crema; e latte grandi aperte di tonno sott'olio e del più economico sgombro, e sarde, e alici. E il cioccolato spalmabile, precursore della Nutella, anch’esso in grandi contenitori rotondi, fatti di strati di legno di pioppo; e spezie tra cui cannella e chiodi di garofano. Tutto ciò invadeva e permeava le narici, che si ritraevano schifate non appena con la mamma attraversavo il reparto del pesce. Ma poi, tutto sommato, anche quello contribuiva alla somma di questo meraviglioso amalgama. Da perdere la testa. E così, intanto che volavo in quel paradiso, finalmente il commesso da dietro i suoi occhialini guardando mia madre, chiedeva: a lei signora cosa posso dare? Debolmente la risposta era: mezzo chilo di farina, per favore… grazie… Ancora oggi rimpiango quel tipo di negozio dove i prodotti, tutti si può dire, erano a cielo aperto; purtroppo a causa di norme igieniche ora tutto è confezionato e asettico, così il desiderio di acquisto non è più sospinto dai profumi, ma dalla mera necessità di un dato prodotto.
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