Sono nata in Viale Oriani 37, al primo piano. Il terrazzino dell’appartamento formava un angolo col balcone che sovrastava l’insegna del Cinema Giardino e fungeva da pensilina. Mia madre aveva fatto amicizia con la proprietaria del cinema. Non avevo nemmeno tre anni quando, qualche volta, cominciò a passarmi dal balcone, per essere più libera mentre riordinava la casa. La signora mi prendeva molto volentieri e io ero felice di scorrazzare in un posto che mi sembrava gigantesco. Dall’appartamento padronale, al primo piano, fino all’atrio, c’era uno scalone di marmo che è stato la mia prima palestra, ma la mia vera passione era la biglietteria. Il banco di legno lucido era alto e mi sistemavano su uno sgabello con le gambe a ciondoloni. La cassiera mi dava il blocchetto esaurito dei biglietti. Io staccavo le matrici e le rivendevo per finta agli spettatori. Ricordo che tutti giocavano volentieri con me. Si vede che ero molto simpatica e sicuramente stavo lì nei giorni meno affollati. Non pensavo, allora, che fosse una parte così speciale della mia infanzia. La maschera aveva la divisa grigia, con i bottoni dorati e il berretto con la visiera. Entravo silenziosa nel salone immenso, buio, con una grande televisione in fondo, sotto lo schermo. Non l’ho mai vista accesa, ma credo fosse per assistere a Lascia o Raddoppia o alle partite. Era una novità, non apparteneva ancora all’arredamento standard di tutte le case. Vivevo un’avventura fantastica, che non capivo, cullata dalle voci degli attori che sembravano venire da un altro mondo, dietro quel telone, come filtrate da un megafono. Quando mia madre finiva i lavori di casa scendeva anche lei a fare due chiacchiere e a vedere il film. Io continuavo la mia esplorazione. Per questo non ho mai considerato il cinema un posto pericoloso, nemmeno quella volta della borsata. Ero poco più grandicella quando mia zia Anna mi accompagnava al cinema. Andavamo a vedere soprattutto Elvis Presley e Jerry Lewis, i miei preferiti. Una volta, al Sordomuti di Via Nosadella, nell’ombra dello spettacolo già iniziato, un uomo, quatto quatto, le sedette vicino. Poco dopo mia zia si alzò di scatto. Mi afferrò per un braccio senza parlare e mi trascinò, a forza, fuori dalla fila. S’infilò stizzita in quella dopo. Mentre passavamo dietro al suo ex vicino di poltrona, gli diede una borsata in testa che rimbombò nella sala. Non capii perché il tizio non avesse reagito. “Ma perché l’hai fatto zia? Lo conosci?”. “Zitta, non sono cose da bambini. Se lo meritava!”.  Che cosa aveva fatto? Restò un mistero per molti anni.

In via Murri c’era anche il Mignon, arena estiva all’aperto. Chiuse dopo alcuni anni per lasciar posto a un condominio elegante. Il cinema Giardino, invece, rimase a lungo nel mio cuore e nella mia vita anche dopo aver cambiato casa. Se andavo lì, da sola o con le amichette, mia madre era tranquilla. Mi riconoscevano. Poi la maschera smise di portare la divisa e la cassiera andò in pensione. A sedici anni, circa, andai con Donatella a vedere Mayerling. È una struggente storia d’amore e piangemmo, singhiozzando così forte, che qualcuno venne a chiedere di calmarci un po’. Anni dopo, sulla trentina, andai con Dina a vedere Brivido Caldo, dove un esplosivo William Hurt rompe una vetrata per rovesciare di passione una perfida Kathleen Turner. Avevamo il braccio pieno di lividi per le gomitate che ci eravamo date, travolte dalla sensualità della scena.

Il cinema Giardino non c’è più. Nemmeno le mie amiche. Nemmeno William e Kathleen sarebbero più adeguati a quella scena.  Chi l’avrebbe mai detto?

Il mio amore per il cinema c’è ancora. Lì, al Giardino, ho imparato a concentrarmi su una storia, a seguire il filo di un discorso. Mi piace la visione del film al buio, in sala. Mi faccio catturare, avvolgere in un 'cocoon', un felpato bozzolo mentale. Come se qualcuno raccontasse una favola solo per me. Esco ritemprata. Non ho sempre bisogno di essere in compagnia. È stata la mia fortuna, non avere questo imbarazzo, quando ho vissuto all’estero per un po’ e avevo poche amicizie. Andare al cinema da sola non era solo un passatempo, ma un modo di migliorare il mio inglese.

In India, prima della fortunata fase di Bollywood, andavano di moda dei filmoni popolari Indi. A volte, quando ero da quelle parti, sono andata a vederne alcuni. Erano produzioni di quattro ore dove tutto succedeva a tutti. Ad esempio un ricco manager torna a casa e la trova svaligiata, moglie e figlia stuprate e assassinate brutalmente. Allora diventa un delinquente e ammazza uno per uno tutti i colpevoli. La polizia internazionale lo cerca per anni. Ha un incidente sotto un treno e perde entrambe le braccia, allora diventa un santone e fonda un ashram per predicare il bene. Quando lo catturano, invecchiato, vestito di bianco e senza braccia, i poliziotti vengono folgorati dalla sua santità. Niente baci e, al momento delle scene d’amore, qualche balletto di coppia. Capito il genere? Non conosco l’Indi, ma non ce n’era bisogno. Le proiezioni erano seguite da intere famiglie: le mamme con i saree colorati, un sacco di bambini e tutti i pacchetti di cibo speziato per fare merenda. Odori pesanti e gran confusione. Mi piaceva, però, perché anche mia nonna faceva così. A metà degli anni trenta andava al cinema con quattro figli e una valigia piena di panini, ciambella, raviole e una bottiglia d’acqua Idrolitina. Vedevano il film tre o quattro volte a ciclo continuo, così loro stavano buoni e lei si riposava un po’.

Adesso ho tempo. Mi piace andare di pomeriggio. È l’orario delle persone mature cioè dei pensionati, come me, del resto. Fanno la fila. Durante la proiezione mi piace il silenzio e, quando gli spettatori parlano, a volte li zittisco. Più l’età è avanzata, più parlano. Le signore anziane commentano a voce alta come se fossero a casa, davanti alla televisione. Io chiamo tutte la Wanda. A volte anche l’Adalgisa, ma è troppo lungo.

Qualche mese fa, durante un film con due famose attrici italiane la signora seduta dietro, molto coinvolta, commenta ogni battuta con grande tempismo.

Dice la Ferilli “Tanto, cos’ho da perdere?”. “Appunto!” risponde la Wanda a voce alta.

“Il commerciante di materassi non si è comportato bene” si lamenta Margherita Buy in un’altra scena. “Ah no, no di certo!” interviene la Wanda.

Non ho la forza di zittirla perché mi diverte. Cerco di torcere il collo e guardare di traverso - diventerò strabica? - per capire quanti anni ha.  Quanti più di me, intendo.

“Non mi ricordo dove ho parcheggiato la macchina!” nuovamente la Buy. “Ah, mo’ bisogna ricordarsi, carina!” rimprovera la Wanda.

Di nuovo mi torna in mente mia nonna che adorava Maigret con Gino Cervi e Cikciok (Hitchcock lo pronunciava così). Non ne perdeva uno. Interloquiva con i protagonisti a voce alta. A cena, quando scodellava la minestra a mio nonno, sembrava lei un commissario. Lui ridacchiava. Erano gli albori della TV in bianco e nero.

Penso a mia madre quando andiamo al cinema, adesso. Mi fa domande come se io sapessi tutti i retroscena.

“Ma cosa ne so io, sono qui con te!”.

“Beh! Sai sempre tutto, TU!” e fa spallucce dandomi implicitamente della presuntuosa, colta, finalmente, sul fatto di non sapere.

Penso a me stessa e non mi piace. A che punto sono io?  Forse il mio momento è già arrivato e non me ne sono accorta.

 

 

-Commenti:

Attraverso la lettura di questo testo emergono i ricordi di una signora ormai pensionata, che narra come la sua vita sia stata accompagnata e segnata dal cinema, racconta come con il tempo sia cambiata lei e chi le sta attorno, ma l’unica costante della sua vita fosse stato il cinema. Questo ricordo mi suscita la voglia di avere una costante nella mia vita

Andrea Chionna