Ricordo una stalla in cui un vecchio racconta storie.

Le mucche si agitano, ogni rumore innesca paure, fremiti, bruschi movimenti che si ripercuotono  su tutti gli ascoltatori. Il vecchio fa molte pause, ammicca, ci scruta, gesticola, mima con grande maestria quello che racconta.

Ad un tratto si apre una porta, e lentamente, da un punto lontano, vedo avvicinarsi persone che portano, a braccia, qualcosa di azzurro. Mi alzo immediatamente, imitato dagli altri, mentre gli occhi del vecchio improvvisamente diventano tristi, come se qualcuno avesse passato sopra loro un velo di nebbia. I nuovi arrivati ci gridano di andarcene subito; ubbidiamo, ma lasciamo una fessura alla porta per vedere e sentire il mondo dei grandi.

E’ un corpo quello che adagiano delicatamente sulla paglia, la stessa che pochi momenti prima aveva assistito, muta, ai racconti del vecchio. Ora quella gioia frenetica dell’ascolto è finita, rimangono solo i lamenti delle mucche che guardano indifferenti quel triste andirivieni, attorno al corpo della donna morta. Dalla fessura riesco a vederne il volto conosciuto, è la curiosità a prevalere sull’angoscia, è sempre la curiosità a darmi il coraggio di aprire la porta e avanzare verso di lei. Mi rimandano subito indietro, ma riesco, per un attimo, ad intravedere sul suo viso un’espressione di cupa rassegnazione che mi accompagnerà ancora per molto tempo.

Nei momenti di tristezza ripenso ancora a quel corpo vestito di azzurro, a quel volto rassegnato nella morte; ripenso anche agli attimi di felicità precedenti, a quel vecchio, prima allegro e poi triste. Anche le storie che ci raccontava avevano degli inizi felici e poi momenti di feroce malinconia, ma erano solo storie.

“Ci racconti una storia, Giuseppe?”

Il volto bonario del vecchio si storceva in una smorfia. Anche le mucche parevano interessate, smettevano di mangiare il fieno e, voltando le loro enormi teste, guardavano Giuseppe, imbronciate per l’attesa.

“Certo, bambini” E il viso si apprestava a mimare il nuovo racconto.

Conoscevo bene la donna morta; si chiamava Giovanna, aveva un banco di frutta e verdura al mercato del paese.

Era morta perché l’amore era stato troppo grande, l’amore per un tipo alto e asciutto che l’aveva illusa, con le sue storie di terre ricche e lontane. Sarebbero fuggiti insieme, aveva detto, ma l’unico a scappare era stato lui, con i pochi spiccioli, rubati ai genitori, che lei gli aveva affidato.

Giovanna mi accarezzava il viso, era buona e gentile, io sentivo solo la sua voce nel frastuono del mercato , quando, con un sorriso, consegnandomi la frutta, mi diceva “Ciao”.

Ed ora è là, adagiata sulla paglia della stalla, tra le mucche indifferenti alla sua morte, ferita dagli sguardi dei curiosi, dalla ridicola serietà della gente.

Nella mente mi riappare Giuseppe, il cantastorie, che si alza, raccoglie l’ultimo odore della stalla, rimane per un attimo assorto, poi si allontana, spostando la paglia con i suoi enormi scarponi da contadino. Guarda Giovanna, con lo sguardo accarezza il suo volto ed esce dalla stalla, accompagnato dai muggiti delle vacche.

“Dai, andiamo a giocare” Mi dice Federico, strattonandomi “Qui non c’è più niente da guardare e da ascoltare”.

Usciamo, e subito ci investe il fresco alito della sera; sotto una luna, appena abbozzata tra le nuvole, prendiamo una pietra e la mettiamo diritta contro il muretto che delimita l’orto accanto alla stalla. Sopra la pietra poniamo cinque monete da dieci lire e cominciamo a lanciare i sassi. L’abilità consiste nel far cadere le monete sul proprio sasso e quindi vincerle; il gioco si chiama “Zaccagno” ed io sono imbattibile; ho una piccola fortuna in monete da cinque e dieci lire in un barattolo arrugginito, che aspetta di essere trasformato in gelati, o film pomeridiani, in costume, con battaglie e odalische seminude che danzano solo per me. Ma quella sera è Federico a vincere le mie monete. Lancio i sassi a casaccio, mentre penso che lei è sempre là, distesa sulla paglia, con il vestito azzurro e l’espressione  di disperata solitudine dipinta sul volto.

Improvvisamente lascio il gioco e Federico; torno nella stalla per rivederla, salutarla, piangere… Lei non c’è più, non c’è più Giuseppe; non c’è più nessuno.

In quella solitudine, spezzata solo dal muggito delle mucche, qualcosa si frantuma nell’aria ferma della stalla. E’ il sentore di una vita serena, fatta di giochi, che improvvisamente svanisce, lasciando solo scarne briciole dei momenti felici. Non c’è più l’incanto, il mito, la certezza di una vita senza fine. L’assurdo, certo limite di ogni esistenza, mi appare nitido, assoluto, spaventoso.

Per reazione, una feroce voglia di vivere  mi induce a correre, correre a perdifiato verso la linea scura degli alberi che circondano  il grande “luogo  proibito”, il macero. Un’enorme massa fangosa che, a detta degli anziani, ha ingoiato negli anni persone, animali, ogni sorta di cose. Lo vedo, è là, muto, nascosto nell’ombra della sera, pronto ad ingoiare anche me, oltre ai sassi che, con rabbia e tristezza, lancio nell’acqua.

Ma ecco che, come per incanto, un debole fruscio nell’erba mi fa girare di scatto e nell’incerta luce della sera, vedo mia madre, solida, sicura, vera, che, con la  sua forte mano, mi riporta immediatamente alla realtà e sul sentiero di casa. Mi sorride benevola, mentre a voce bassa, per non rompere il silenzio della sera, mi dice, nel dialetto che mi ha cullato fin dalla nascita:

“Lo sai che non devi avvicinarti al macero, è pericoloso, potresti scivolare”.

Per un attimo il pensiero di raggiungere sul fondo tutte le persone, gli animali, le cose, che il macero ha ingoiato, mi affascina; li vedo là, sdraiati con gli occhi aperti che aspettano altri ospiti con i quali poter condividere la loro statica esistenza. Sono felice adesso di appartenere a questa fragile, temporanea esistenza, fra qualche istante sarò accolto dall’insistente latrato di Jolly, il mio cane e dalla sguardo accigliato di mio padre.

E’ tra le scure pareti della cucina che il mio animo definitivamente si placa. Vicino al camino, con le braci ormai spente, coperte da un sottile strato di cenere, sento il profondo respiro della notte. Improvvisamente un’inspiegabile gioia di vivere occupa la mia mente; tornano le vecchie storie di Giuseppe, l’odore del fieno, gli  abbracci di mia madre. In verità quando mia madre mi bacia e mi abbraccia tocca anche i miei capelli; non lo sopporto, la mia dignità di maschio è già seriamente compromessa da tutto quell’umidore avvolgente; e quell’ultimo tocco sulla testa ha il sapore di una scodinzolante resa canina. Ma è mia madre, sorridente e serena, come i melograni del giardino, così mi arrendo anche al suo tocco lieve sui miei capelli.

L’indomani , le suore della scuola mi appaiono  come neri giganti nell’azzurro. Mi prendono per mano e , mentre la loro ruvida veste mi accarezza, noto con stupore ciocche di capelli che escono dai loro copricapi. Suor Federica, suor Scolastica, la sorridente suor Antonia; i loro nomi giocano allegri con le preghiere, nella luce dell’oratorio. E mentre recito, con tempo cadenzato, le tabelline, ripenso a Giuseppe, a Giovanna ormai lontana nello spazio e nel tempo, alla stalla satura di vapori.

L’enorme albero di gelso mi accoglie al ritorno dalla scuola. Lascio cadere a terra la cartella e, come mi ha insegnato Angelo, che frequenta la quinta ed è il più alto di tutti, mangio le more colorate, a grugno, con gli occhi chiusi e le mani dietro la schiena. E’ una tecnica che comporta grosse soddisfazioni, ma anche qualche rischio, come quella volta che un’ape mi ha punto nell’interno della bocca, lasciandomi dolorante e ammutolito.

Un giorno il parroco mi prende in disparte e mi dice:

“Ma tu che ami tanto i cowboy, lo sai almeno chi sono?”

“Certo “ Gli rispondo  “ Sono i buoni che combattono i cattivi”

“E chi sarebbero i cattivi?”

“Gli indiani , naturalmente”.

Ma che razza di domande mi fa il prete , penso ; ma lui continua:

“I cowboy non sono degli eroi, sono solo dei guardiani di vacche e non sono tanto sicuro che gli indiani siano così cattivi”.

Don Vincenzo è un prete fantastico, quando hai delle certezze te le smonta, ti pulisce un po’ il cervello e te le rimonta, assemblate in modo diverso.

Il mondo della chiesa  mi appare sempre come un grande campo di giuochi; servo la messa, facendo allegramente dondolare il turibolo da cui escono simpatici sbuffi di incenso; scorro i nuovi fumetti in canonica; esploro a fondo  la sacrestia, ricolma di paramenti multicolori. Non sopporto, durante le funzioni , di “portare” i candelieri:

“Qualcuno, a turno, bisogna che lo faccia”

Mi dice , sorridendo, Don Vincenzo:

“Quando sei là, impalato, diritto come un manico da scopa, con le braccia doloranti, respira profondamente e pensa al tuo dolce preferito”.

Come sempre Don Vincenzo ha ragione; è persino piacevole, nonostante la fatica, perdersi tra l’odore della cera calda che cade sulle mani e quello antico della torta di riso di mia madre.

Nel piazzale della chiesa si vede spesso un tipo allampanato, segaligno, che si muove a scatti, a volte parla in fretta, roteando gli occhi e spostandosi continuamente di lato. Spesso rimane in silenzio, per lungo tempo, mentre il suo sguardo fissa un punto lontano all’orizzonte. Si chiama Luciano; io lo osservo di nascosto, mentre trasferisce le sue straordinarie architetture dalla mente all’aria circostante. Un giorno, vicino a casa, l’ho visto piangere e gridare contro un gruppo di uomini che, ridendo, lo stavano circondando. Lo scatto secco del cancello e il fermo, severo, viso di mia madre, misero in fuga gli ubriachi. Lei invitò Luciano ad entrare; la casa era permeata dal tenero odore di frittelle dolci e il debole chiocciare delle galline, dall’esterno, rendevano l’ambiente tranquillo e confortevole. Luciano parlò a lungo, mangiando frittelle e dimenando il corpo come un contorsionista; io, a distanza, li osservavo, ed ero stranamente, selvaggiamente, ferocemente, felice.  

La domenica, prima della comunione, con il vestito della festa, mi inginocchio pregando Dio di non fare alzare troppo presto Clara, la dolce Clara, che è proprio accanto a me e mi inonda di beatitudine con il dolce profumo dei suoi capelli. Esco dalla chiesa e, con il vestito immacolato, mi azzuffo con Giuliano, un bambino che ha sporcato il velo bianco di Clara. La lotta è impari, lui è molto più alto e grosso di me, si allena continuamente con i suoi fratelli e tira, con rabbia, calci proibiti alle gambe. A casa, incrocio lo sguardo beffardo di mio padre, quello dolorosamente interrogativo di mia madre; salgo le scale e mi infilo direttamente a letto senza pranzare.

Durante la notte, nella mia camera ingombra di fumetti, mi fa visita, in sogno, Giovanna, vestita di azzurro, mi sorride e teneramente mi abbraccia. E’ bella Giovanna, i suoi capelli risplendono al sole del mattino; passeggiamo in silenzio nella campagna settembrina, raccogliendo frutta e ascoltando il canto degli uccelli. D’un tratto, correndo, si nasconde nella fresca ombra di una macchia di alberi, laggiù, lontano. Disperatamente la inseguo, la chiamo “ Giovanna!  Giovanna!”. Mi risponde solo la muta luce del sole.   

 

 

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