La casa dei Michelini a Pontevecchio sorgeva di fronte a villa Paradiso. Era antichissima, se ne trova traccia nelle vecchie mappe. Più lunga che larga, seguiva in aderenza la via Emilia Levante, separata da essa soltanto da uno stretto marciapiede. All’incirca davanti all’odierno voltone sotto cui inizia via Savena Antico, si trovava nei tempi andati un vecchissimo forno. All’interno del caseggiato, che era suddiviso in varie proprietà, esisteva un pozzo che garantiva l’acqua a tutti i piani, fino all’ultimo, tramite un profondo condotto attrezzato con secchi e carrucole. Sul retro si trovavano alcune costruzioni di servizio e l’ampia corte alberata.
Al piano terra sulla via Emilia si snodava una lunga sequela di negozietti, tra cui la botteguccia di Guido il droghiere, con gli spessi occhiali da miope e il mozzicone di matita per fare i conti all’orecchio, coadiuvato dalla moglie e dalla figlia Gloria, entrambe paffute. Nel negozio regnavano perenni il sorriso di tutti e tre e la totale mancanza di fretta, cioè l’esatto contrario di ciò che succede oggi. Nonostante le ridotte dimensioni del locale, vi si trovava di tutto e io mi stupivo di quanta roba potesse contenere. La nonna vi comprava, fra le altre cose, il detersivo Tide (soltanto molti anni più tardi avrei saputo che si pronuncia tàid e in inglese significa marea), ma ad attrarla non era il millantato candore del bucato (che meglio della liscivia non c’era niente, diceva lei), bensì i bicchieri in vetro con il decoro di agrifoglio che venivano dati in omaggio nascosti nella bianca polvere all’interno della scatola di cartone. Appena arrivata a casa, apriva la scatola, la vuotava e tirava fuori delicatamente il bicchiere.
La nonna però andava a fare la spesa anche dalla concorrenza, cioè da Vittorio, l’altro droghiere che aveva il negozio nei cosiddetti casétt, cioè le casine poste a fianco dla ciséina, ovvero l’oratorio di Santa Maria di Pontemaggiore, perché aveva un grande senso di solidarietà umana e diceva che non bisogna fare torto a nessuno, tutti devono campare.
All’angolo ovest della casa dei Michelini c’era il caffè Cacciatori e questa attività di osteria risaliva a tempi molto antichi, come si evince da vecchi catasti. Era stato gestito in precedenza da Attilio Michelini, sposato con la signora Venusta e padre di due figli, Enzo e Bruno. Rimasto vedovo, si risposò in seguito con la signora Leonia. Fu proprio Bruno Michelini, meccanico dentista, ormai anziano, a raccontarmi che da bambino, nel 1931, dalla sua finestra guardava costruire la casa in cui abitiamo, e raccontava che non furono usati ponteggi. Gli operai, che lavoravano duramente e non di rado erano redarguiti dai superiori, salivano lunghissime scale di legno, portando in bilico su una spalla pile di mattoni. Come mi riferì una volta un vecchio capomastro, questa era fra l’altro una delle prove d’esame che consentivano ad un manovale, in genere si iniziava da cinni, di passare di grado nei vari livelli della carriera di un muratore.
All’epoca in cui io ero bambina il caffè Cacciatori era gestito dall’oste Fiorentini, il quale aveva una figlia di nome Liviana, più o meno della mia età. Mio nonno Raffaele era un assiduo frequentatore di questo caffè ed a me, pur essendo piccola, era demandato il compito di andarlo a chiamare. Mia nonna Elvira diceva: “Va bèin a ciamèr tu nunòn, an séint brisa cl’é òura ed magnèr ?!?!”
E allora andavo, unica femmina in mezzo a tanti avventori maschi. Il locale era sempre in penombra, anche in piena estate, perché le finestre erano poche, piccole e protette da inferriate. La luce artificiale era fioca. Entrando prendeva alla gola l’odore inconfondibile delle vecchie osterie, fatto di toscano, scoregge e alcolici, per lo più vino e grappa, con qualche nota di caffè. Anche qui la lentezza era imperante. Fiorentini mesceva con cura e delicatezza le bevande, dietro al bancone posto a sinistra dell’entrata. Il grembiule dell’oste, annodato in vita e lungo quasi fino ai piedi, era dello stesso indefinibile colore delle pareti, una tinta che sfuggiva ad ogni classificazione, ma recava il marchio DOC del fumo e del tempo.
Seduti ai tavolini, al centro e ai lati della stanza, i giocatori riflettevano attenti, poi calavano la carta con gesti del braccio che avevano in sé qualcosa di teatrale, ciascuno col proprio stile. A volte descrivevano nell’aria un grande arco, oppure la lanciavano di taglio in modo rapido e secco, qualcuno la sbatteva giù con forza, della serie tò mò, altri la calavano lentamente, esitando a lasciarla quando ormai era sul tavolo, poi c’era chi si umettava le dita e soffregava tra pollice e indice le carte disposte a ventaglio, come a saggiarne la valenza, prima di decidersi. Dalle labbra spesso spuntava il mozzicone di un sigaro o uno stuzzicadenti annerito, entrambi viaggiavano da un angolo all’altro della bocca senza l’ausilio delle mani, seguendo le alterne vicende del gioco. .
Dirimpetto all’entrata, sulla parete di fronte, un varco rettangolare aperto nel muro, comunicante con la stanza attigua, ospitava una stufa, che in questo modo dispensava calore in entrambi i vani. Alla sinistra della stufa una porticina immetteva nella stanza da biliardo. I giocatori sfregavano con i gessetti la punta della stecca (da cui il detto calma e gesso), quasi si sdraiavano sul tavolo verde che mi sembrava un prato e si fermavano così, respiro trattenuto e fronte aggrottata. Solo un impercettibile avanti e indietro della stecca appena appoggiata sul dorso della mano aperta a farfalla tradiva la loro natura di creature vive. All’improvviso – tac – partiva il colpo e le palline colorate, come fuochi d’artificio impazziti, correvano da tutte le parti all’altezza del mio naso (arrivavo poco più in alto della sponda del biliardo) per poi sparire – meraviglia! – dentro ai buchi.
Il tempo passava e io non me ne accorgevo, il nonno continuava a giocare a carte con i suoi amici fino a quando la nonna imbestialita veniva a recuperare marito e nipotina. Non c’era neanche bisogno che parlasse, compariva sulla porta con mani ai fianchi e sguardo da basilisco.
Mia madre mi racconta che durante la guerra le colonne militari dei tedeschi sostavano sulla via Emilia per ristorarsi al caffè Cacciatori. Appena pochi giorni dopo il famoso otto settembre erano fermi in strada tre camion scortati, direzione Bologna centro, carichi di prigionieri in procinto di essere portati chissà dove. Mentre i soldati tedeschi si alternavano al caffè per ristorarsi, i poveretti, molto provati, supplicavano di avere un po’ d’acqua. La gente osservava la scena da finestre, porte, marciapiedi. Mia nonna uscì di casa con un fiasco d’acqua e qualche bicchiere di vetro e cominciò a dar loro da bere. Accortosi di ciò, i tedeschi accorsero e uno le puntò il mitra contro e le urlò: “Raus! Raus!”. Nonna Elvira di politica non ne aveva mai voluto sapere, ma teneva un cuore grande e molto senso di carità cristiana. Iniziò così un tragicomico diverbio fra il soldato che urlava in tedesco di allontanarsi e lei che in dialetto sbraitava indignata: “Caràggna ed pùrz, vargugnìv, a vré vàddar vuèter in sté cundiziòn!”. Mia madre, dalla soglia di casa terrorizzata, la implorava di lasciar perdere e venire via. Penso che i tedeschi non capissero il bolognese, perché non l’ammazzarono e il Cielo la protesse perché non fu arrestata. Dell’episodio, di cui furono testimoni parecchie persone e che può essere considerato un piccolo atto di coraggio, mia nonna non ne parlava mai, come fosse stata per lei la cosa più normale del mondo. Mi chiedo se qualcuno dei prigionieri si sarà ricordato di quella donna sconosciuta che, a Pontevecchio, rischiò la vita per dar loro da bere, o almeno ci provò.
Un fedelissimo cliente del caffè Cacciatori era Quinto, il fioraio. Era stato un muratore e si diceva in giro che fosse anche bravo, poi per motivi di salute aveva dovuto smettere e si era dedicato alla nuova attività. La sua botteguccia stava al civico 136, a fianco di Ivo il barbiere. Più che un negozio consisteva in una porticina a vetri, un lungo stretto corridoio e, in fondo, uno stanzino dove ci stava un tavolo e niente più. L’assortimento di fiori era piuttosto limitato, riducendosi a qualche garofano e poche rose. Lo ricordo diritto e composto, con i capelli impomatati ravviati con cura all’indietro. Vestiva semplicemente, parlava in modo pacato, aveva in sé un non so che di elegante e dignitoso. Del resto sua moglie appariva un po’ snob. Di che vivesse non saprei dire, perché era più il tempo che passava al caffè di quello trascorso in negozio. D’altronde i non numerosi clienti sapevano dove trovarlo, all’occorrenza.
Io crescevo, da tempo non andavo più a recuperare il nonno al caffè, impegnata com’ero negli studi. La mia cameretta, già appartenuta alla bisnonna Ida, era un insieme di vecchi mobili disomogenei, alcuni decisamente bruttini e modesti, però io ne andavo fiera, perché era uno spazio tutto mio, e la tenevo pulita ed in ordine. C’era un vecchio tavolino malmesso, nel quale il vuoto lasciato dai tarli era ormai di volume pari al legno residuo, e fungeva da scrivania. Le sue assi sconnesse erano state pietosamente ricoperte da una tovaglia di plastica giallina con immagini di piante, ma non esemplari comuni, che so, ortensie, gladioli, gerani, bensì specie a me sconosciute, con tanto di nomi botanici scritti accanto, che affioravano da sotto i miei libri e quaderni. Ancora adesso me ne rammento qualcuno: Pulsatilla ludoviciana, Aronia arbutifolia.
Specialmente nei pomeriggi di primavera, mentre ero china sui compiti, mi accadeva di sentire, attraverso la finestra aperta, la voce del nonno che mi chiamava dal giardino. Mi alzavo dalla sedia impagliata, che mi lasciava le striature sulle cosce, e mi affacciavo. Giù c’era il nonno Raffaele con in mano una barretta di cioccolato vinta a briscola. Si trattava dell'ambitissimo carrarmato Perugina, prodotto in tre versioni: al latte con incarto rosso, fondente di colore blu e bianco in confezione gialla. Cercando di calibrare il lancio, il nonno lo gettava in alto, verso la finestra al primo piano. A volte arrivava alla portata delle mie mani protese, o sul davanzale, oppure atterrava sul pavimento della stanza. Altre volte, invece, ricadeva giù in giardino o, peggio ancora, si fermava sul cornicione della casa. Allora prendevo la scopa, mi sporgevo dalla finestra, lo ributtavo giù e i tentativi ricominciavano. A pensarci ora, sarebbe stato ben più semplice fare una corsa giù, a quel tempo avevo le ali ai piedi, ma sia a me che a lui non venne mai in mente. Ci piaceva così questo momento, un po’ un gioco, un po’ una sfida contro la forza di gravità terrestre.
Poi mi gustavo felice, senza fretta, il mio cioccolato e subito dopo le equazioni di primo grado ad una incognita o la grammatica francese mi sembravano meno difficili.
Lui ritornava al caffè Cacciatori, per combattere ancora battaglie di carte e catturare un altro carrarmato per me.
L’estate al caffè era bellissima. Un lungo 'barsò', pergolato di verzura, correva all’aperto, ombreggiando i tavolini di ferro e la pista delle bocce. Utile e discreto c’era al pisadùr, il vespasiano, perché si sa che dopo aver bevuto si deve espellere … Mia madre mi racconta che, quando lei era giovane, si facevano anche feste da ballo dentro al locale. Due splendidi pioppi completavano il giardino estivo. Hanno resistito fino a poco tempo fa, cari giganti buoni unici testimoni rimasti, poi sono stati purtroppo abbattuti.
Quando la vecchia casa dei Michelini fu demolita per fare il posto ad un moderno palazzone, io ero a letto ammalata. Attraverso la finestra della mia cameretta l’ho vista scomparire.
Avevo gli occhi lucidi, ma non era per la febbre.
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