Mio padre partì per il Belgio da Serramazzoni, provincia di Modena, verso l’11 novembre 1946. Erano in quattordici persone a partire dal paese, in seguito d tredici i essi sono ritornati in Italia dopo circa quindici giorni di permanenza in Belgio. Non hanno retto le condizioni penose di duro lavoro in miniera, oltre le condizioni in cui si sono trovate per quel che riguarda la situazione abitativa, clima in generale. Il viaggio per il Belgio si svolgeva in treno, la prima tappa alla stazione centrale di Milano. Lì bisognava sottomettersi ai primi controlli sanitari, se si riteneva che gli uomini, in particolar modo, si trovassero in ottima salute, ossia idonei, allora automaticamente ottenevano un permesso per proseguire il viaggio. Oltre il controllo dello stato di salute, venivano ispezionati anche i bagagli. I treni erano scomodi e spesso senza riscaldamento. La seconda tappa era a Basilea, in Svizzera, lì si svolgevano soprattutto i controlli dei documenti, se non sorgevano problemi, prevalentemente riguardanti i dati anagrafici, le persone potevano proseguire il loro lungo viaggio.  La stazione di arrivo per tutti era Liegi, che si trova nella parte Nord del Belgio.

Racconta mio padre

"A Liegi ci attendevano le guardie della miniera. Comunque, arrivati in Belgio, noi non sapevamo dove andavamo a finire, il biglietto del viaggio indicava solo la partenza dall’Italia con arrivo in Belgio. Lo smistamento delle persone avveniva a caso. Chi andava a finire in Limburgo, all’estremo nord-est del Belgio, che confinava con l’Olanda e la Germania, era più fortunato per le condizioni di vita in generale, nel senso di abitazione e assistenza sociale. Diciamo che era più moderno, peggio era per le persone dirette per la Vallonia, al Sud del Belgio, che confinava con la Francia.

Le guardie della miniera, addetti all’accompagnamento verso i luoghi da loro prescelti, provvedevano al cibo per tre giorni di seguito, diciamo che era la prima assistenza indispensabile, ciò era gratis a spese del governo Belga. I primi sei mesi ci stazionavano a vivere con i Belgi, convivevamo con essi, ed in ogni abitazione, vivevamo insieme in due famiglie. La solidarietà tra italiani era enorme, facevamo la colletta per comprare da mangiare, lo scoglio più difficile era la lingua dei Belgi, non capivamo nulla, e poi c’era il freddo a cui non eravamo abituati, la pioggia incessante, quasi tutti i giorni.

Mio padre, Carlo Salsi (classe 1916), fu presentato ad un certo signore di nome Cappelletti, responsabile dell’accoglienza  degli italiani a Lindeman, questo disse agli abitanti di Lindeman:

“Questo è il figlio di Carlo Salsi, si chiama Egisto Salsi, dategli da mangiare".

" I permessi di lavoro venivano pagati sia dalla miniera che dai comuni, sia in Belgio che in Italia. La miniera pagava 62,50 franchi belgi. Il comune pagava 62,50 franchi belgi.  E per cinque anni bisognava sottostare alle condizioni imposte dalle miniere, il nostro datore di lavoro. ll permesso di soggiorno diceva: 'puoi stare nel Regno Belga a condizione di lavorare in miniera'.  Questo permesso veniva rinnovato ogni anno ed era nominato: il foglio B,  la carta d’identità ,anche essa rinnovabile, ma ogni 6 mesi, ed era un foglio con la scritta A. La paga giornaliera di lavoro era di 160 al giorno franchi belgi".

Arrivati in Belgio, ai futuri minatori si rilasciava il permesso di lavoro B, che aveva una durata annuale e ad ogni scadenza doveva essere rinnovato. Dopo cinque anni di lavoro in miniera veniva rilasciato il permesso di lavoro A che a sua volta aveva una durata illimitata. Occorre ricordare che l’emigrato in Belgio con contratto per le miniere di carbone non poteva svolgere un altro lavoro se non dopo cinque anni consecutivi di lavoro come minatore. Il primo impatto con la miniera fu traumatico per quasi tutti gli italiani. Non erano assolutamente consapevoli di quello che li aspettava: le facce nere dei minatori che risalivano dal fondo, la gabbia dell’ascensore dove erano stipati uno addosso all’altro, la velocità con cui questo scendeva a centinaia di metri di profondità, il buio e i cunicoli, il rumore dei martelli pneumatici e dei nastri trasportatori e infine la polvere di carbone che sembrava togliere il respiro. Nessuno aveva dato loro adeguate informazioni nonostante ciò fosse espressamente previsto dall’articolo 5 dell’accordo Italia-Belgio. Solo in un secondo tempo venne disposto che almeno i primi due giorni di lavoro fossero impiegati esclusivamente per conoscere la miniera e che ci fosse  l’obbligo di fare pratica come manovale per almeno sei mesi prima di passare a lavori più impegnativi. Il lavoro si svolgeva su tre turni: dalle 06.00 alle 14.00, dalle 14.00 alle 22.00 e dalle 22.00 alle 6.00, per sei giorni alla settimana. I minatori lavorarono prevalentemente come manovali, manovali specializzati e minatori all’estrazione.  Alcuni lavoravano al cosiddetto “avanzamento”. I manovali dovevano provvedere a caricare il carbone che cadeva dai canali di trasporto, a far giungere il materiale necessario per armare, a caricare la roccia fatta saltare nelle gallerie.  I manovali specializzati dovevano completare il lavoro dei minatori del mattino e armare e disarmare in “taglia” spostando i canali di trasporto.

Il minatore all’estrazione lavorava nelle “taglie” con il martello pneumatico per provvedere appunto all’estrazione del carbone. Il minatore inoltre doveva spingere il carbone con la pala e a volte con i piedi verso canali di trasporto e armare con piloni e puntelli man mano che si proseguiva nell’estrazione. Quando si trovava in taglie molto basse doveva lavorare per ore coricato. Il lavoro del minatore è un mestiere molto duro, rende gli uomini rudi e forti e li rende maturi prima del tempo.  Non vi era giorno in cui non vi fossero degli infortuni sul lavoro e di tanto in tanto scappava anche qualche morto.  Le vene del carbone sono di varia altezza ma solo quelle che vanno da 50 cm di altezza in su venivano sfruttate per la loro resa.  Ogni vena comunica a monte con una galleria dove vengono convogliati tutti i materiali necessari per l’armatura di valle che deve esserci per la sicurezza. Da qui partono i carrelli che vengono mandati in superficie. Un altro pericolo era la presenza di un gas chiamato grisù, che fra l’altro era sempre presente nell’aria.

“Tutti eravamo provvisti di una pila elettrica e di un elmetto per difenderci dalla caduta di sassi, ogni squadra di operai era munita pure di una lampada speciale appunto che misurava la quantità di gas presente e con il suo lampeggiare ci indicava quando la quantità di gas presente superava certi limiti e quindi poteva diventare pericoloso”.

In caso di estremo pericolo, i minatori erano autorizzati ad abbandonare il posto di lavoro.  In questo caso la direzione della miniera introduceva una forte corrente d’aria per espellere il gas presente.  Per proteggersi dalla polvere di carbone, veniva fornita una maschera che però nessuno riusciva a utilizzare regolarmente per il fastidio che dava al viso con il sudore e per il fatto che si intasava quasi subito. Tutti i minatori, per diminuire gli effetti della polvere, ciccavano continuamente tabacco. Il minatore all’avanzamento lavorava nelle gallerie che portavano alle taglie. Man mano che proseguiva l’estrazione del carbone queste gallerie dovevano avanzare.  Per fare ciò venivano fatte saltare delle cariche di esplosivo che frantumavano la roccia.  Questa doveva essere spostata velocemente per armare subito la galleria. Il guadagno non era quello che avevano sperato prima di partire. Per i manovali la paga era oraria e con fatica restava qualche soldo da mandare in Italia alla famiglia.  Per guadagnare di più dovevano chiedere di passare minatori all’estrazione o all’avanzamento. Qui il lavoro era di cottimo : tanti metri si facevano, tanto si guadagnava. Lo sfruttamento del lavoro dei minatori è evidente in tutta la sua dimensione.

 

 

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