Il Barbapedana

era un vecchio clochard

d'una Milano un  tantino malsana

Cantando per strada

narrava le storie di vita dannata

Invadeva il viale la voce stonata

Nel gelo invernale

di Milano alle porte

Barbapedana ha incontrato la Morte

La gente lo ha pianto

poi l'ha seppellito

Il suo raccontare è finito

 

 

In questa mia vecchiaia, ancora vivace, interessata alle vicende umane e che vive alla giornata, evitando di fermare il pensiero sugli anni a venire (ammesso che mi siano concessi), muovo il passo, il pensiero, la volontà tenace, fra amicizie, conoscenze, approcci di vario genere,  sempre attenta alle esigenze altrui.

Anni fa, dopo la morte del mio compagno, ho abbandonato l'appartamento di via Milano, a Bologna, per trasferirmi in un paesello dell'hinterland bolognese.

Qui ho generato il mio futuro di donna carica d'anni e di ricordi.

Quale donna?

Come io sia, come gli altri mi vedano, non so dirlo di preciso.

L'indagine che conduco da anni su di me è inconcludente.

Conoscere l'intima, profonda entità della propria persona è molto difficile. A volte impossibile.

Anche la rimembranza del passato, le avventure vissute, sofferte, godute negli anni della giovinezza e della maturità, poco rivelano di noi stessi.

Ci si torna col pensiero solo per ritrovare l'emozione del passato, il suo essere stato un "sé" d'altri tempi.

Sono nata a Milano nel lontano 1927. In una famiglia dalle origini di vari luoghi: un nonno piemontese, un altro fiorentino, una nonna bresciana e l'altra francese. Babbo e mamma milanesi.

Milano, ai tempi della mia fanciullezza era una città un tantino paesana. Spesso nei cortili delle case gli inquilini creavano l'orticello.

L'analfabetismo era piuttosto diffuso. Nel caso fosse superato, non si poteva dire che fosse intervenuta una cultura appena accettabile.

Io e i miei genitori abitavamo al quinto piano di un caseggiato che, di piani, ne aveva otto.

Su ognuno erano insediati quattro appartamenti, con due gabinetti comuni e un  ballatoio che dava sul cortile.

La comunione dei gabinetti era uno dei tanti motivi per battibeccare.

Entravi, piegavi le ginocchia e ti preparavi alle funzioni corporali, quando da fuori, qualcuno bussava vigoroso e una voce insistente urlava:

"Dai! mouvet, che la me scappa".

Veniva una rabbia che, all'uscita da quello che veniva chiamato " cesso" o "latrina" portava ad essere scortese con colui o colei che entrava.

Però bastava una serata in comune sul ballatoio o nella casa dell'uno o dell'altro e un bicchiere di  barbera, per sanare il piccolo diverbio.

Il caseggiato nel quale abitavo coi miei era nel rione di Porta Volta, dove troneggiavano i Bastioni e correva il Naviglio.

Gli appartamenti erano costituiti da due grandi stanze che ogni famiglia arredava o divideva a piacere.

Mio padre ne aveva ricavato quattro camere: cucinina, salottino, camera da letto per i genitori e la mia cameretta: un lettino, un piccolo armadio, il tavolino e una seggiola di legno con cuscino.

Un'ampia finestra permetteva al mio sguardo curioso di vagare sulla piazzetta che stava di sotto dove, anche in piena notte, arrivavano a me le urla e i canti sguaiati di qualche ubriacone insediato nell'osteria e il rumore delle seghe nella falegnameria.

Per fortuna prendevo sonno ugualmente.

Alle sei o poco più del mattino, papà provvedeva per tempo a comprare il pane fresco e il latte nei due negozi di Via Volta  che aprivano a quell'ora.

Il babbo era un uomo speciale: intelligente, abbastanza acculturato, tollerante, manualmente e intellettivamente capace. Pieno di buon senso e di altrettanta educazione. In mezzo alla folla di uomini dei dintorni, volgarotti, a volte maneschi con moglie e figli, era quasi un'eccezione

Mentre mamma, cardiopatica e sofferente, aveva un temperamento ostile verso la famiglia e, in particolare, verso di me.

Alle elementari venivo considerata un genietto. La mia insegnante mi adorava.

L'unica materia nella quale ero alquanto scadente era il cucito che allora faceva parte delle materie insegnate.

Io avrei desiderato andare nel settore maschile della scuola dove si insegnava una materia che mi pareva molto interessante: la falegnameria.

Oggi, alla mia fiorente età, taglio la legna per il camino con l'elettrosega e mi piace farlo nonostante lo ritenga pericoloso.

Per arrivare alla scuola dovevo attraversare i Bastioni di Porta Volta che erano grossi rialzi di terra e sassi, sui quali, durante l'inverno, si stendeva una coltre di ghiaccio. Camminandoci sopra con la pesante cartella nella mano, si rischiava sovente di cadere.

L'edificio, diviso in due sezioni, una femminile e una maschile, portava il nome dell'ospedale vicino: Fatebenefratelli.

Nella mia classe, all'inizio di ogni anno c'erano, più o meno, ventiquattro bimbe che poi diradavano e alcune non ci venivano più. Era in voga, come dicono gli inglesi, il dropoutcioè la fuga dalla scuola. Avveniva soprattutto fra gli studentelli maschi.

L'italiano era un popolo dove, in generale, la mancanza di reale cultura regnava sovrana.

Anche i meneghini non si allontanavano da questa quadra.

Tanto che la mia mamma, avendo una cultura modesta, ma di certo superiore al suo vicinato, sia femminile che maschile, era chiamata: la "Maestra".

Papà, di nome Giuseppe, dal momento che sapeva guidare la macchinona della sua ditta, che parlava correttamente l'italiano e riusciva a fare a memoria calcoli anche complessi, era nominato il "signor" Pino. Là dove il termine "signore" era dato solo ai potenti e alle persone ricche. E lui non possedeva nessuna delle due qualità.

Come dicevo, nella scuola ero considerata una ragazzina di ottima intelligenza. Ciò non era dovuto solo a mie capacità personali, ma anche, e sopratutto, alla severità della mamma. Nel fare i compiti o nello studiare le lezioni lei mi stava accanto, pronta a sberlottarmi qualora fossi distratta o incapace. Più avanti, in altri studi dove lei non era all'altezza, me la cavai al limite dell'accettabile.

Nei quattro anni delle elementari vinsi sempre il premio per i ludi letterari fascisti, chiamati Juveniles.

Venivo premiata con oggetti utili, come lampadari, tazze, piatti decorati o  posate di ogni genere.  Premi che io non apprezzavo. Avrei voluto dei giochi.

Quando iniziavano le vacanze scolastiche mamma ed io partivamo per le vacanze al mare ligure, dove papà ci raggiungeva ogni domenica.

Pagavamo l'affitto per una stanzetta situata nell'appartamento di una signora genovese.

Ogni mattina ci alzavamo verso le otto e, dopo esserci preparate, raggiungevamo un vicino bar  dove consumavamo una cioccolata con biscotti.

In spiaggia mia madre si accasciava sulla sdraio, sotto l'ombrellone, e si metteva a leggere qualcosa.

Io ne approfittavo per allontanarmi e farmi un bagno dove lei non mi vedeva.

Il bagno mi era proibito poiché soffrivo di dolori reumatici.

Quando tornavo ero asciutta e mi portavo appresso l'aria innocente della persona che aveva obbedito.

Nel rientro a Milano riprendeva il tran tran solito. Oltre al dover studiare con tanta buona volontà, mi sentivo spesso molto sola. Mamma era possessiva e non voleva che io mi mescolassi in cortile o per strada coi monelli che vi giocavano.

Io spiavo dalla finestra i ragazzi che urlavano di sotto, rincorrendosi e accapigliandosi. Se arrivava una macchina che voleva passare, si trovava costretta a suonare il clacson numerose volte.

Delle bellezze artistiche di Milano ricordo, in modo particolare, il Palazzo Sforzesco e il Cimitero Monumentale, vicino a casa mia.

Il primo aveva un reparto che suscitava in me, tra brividi di paura e d'ansia, anche una strana voglia di tornarci sempre. Era quello delle mummie. Poi c'erano tanti esemplari d'arte antica che mi affascinavano.

Il secondo non lo vedevo come un camposanto. C'erano delle edicole piccole e graziose dove venivano sistemata le tombe. Erano appaiate a costruzioni più grandi, stipate di statue bellissime e copie di quadri d'autore.

Chiedevo al babbo:  

Papà, ma chi ci finisce li dentro?.

I  morti, bambina,

Sì, lo so. Ma che morti sono? È tutto così bello!

Sono personaggi importanti: scienziati, politici, scrittori noti e così via. Hai visto le tombe? Proprio artistiche e portano epigrafi straordinarie.

Era tutto straordinario.

Nell'atrio di casa mia c'era la portineria. La portinaia Giovanna era una persona speciale: laboriosa, generosa e pronta a porgere aiuto. Tutti conoscevano la sua storia.  Era stata sposata ad un uomo che la picchiava e la disprezzava. Quando, all'arrivo della guerra in Etiopia (anno 1936) lui partì per l'Africa, lei sperò che morisse, magari da eroe. Fece un'offerta a Sant'Ambrogio, pregandolo di liberarla dal suo torturatore. Purtroppo il Santo, per il momento, non fece il miracolo. L'uomo tornò più cattivo di prima.

Ma, qualche mese dopo, uscendo da una casa di tolleranza dove era un habitué, ebbe un ictus e ci lasciò la pelle. Poiché era un personaggio noto per la sua fedeltà al fascio, gli fecero un funerale coi fiocchi e alla " vedova inconsolabile" diedero la custodia della portineria del mio palazzo.

La donna, il giorno stesso del funerale, andò in chiesa per ringraziare Sant'Ambrogio.

Per lei iniziò finalmente un periodo di vita sereno.

Un giorno le accadde un fatto che, in un primo momento, rasentò l'aneddotica, poi divenne motivo di risate e ammiccamenti.

In portineria arrivò un ragazzotto claudicante. Rivolgendosi alla Giovanna disse:

“Gentile sciora, cì è da portare questa lettera al Monti. Gliela vuol consegnare lei, per favore. Subito, che ci vuole la risposta”.

“Dalla qua..." ribadì la donna , “che ce la do quand lŭ al vegn giò”.

“No,no! Ce la deve dare subito. Ce la porti lei. Quello lì sta all'ottavo piano. Io non posso fare le scale che mi duole la gamba”.

E la guardava con uno sguardo invocante.

Giovanna borbottò qualcosa, poi si mise uno scialle sulle spalle e partì verso la  meta. Giunta alla porta del Monti, un vecchietto malandato, suonò. Lui venne fuori, prese la lettera e la lesse inforcando gli occhiali. C'era scritto in dialetto meneghino: 'Portinara ven de bass che la sveglia a la va a spass'.

Quando la Giovanna si precipitò di sotto, il ragazzo se ne era andato portandosi appresso la sveglia.

Un furto che la donna aveva mal sopportato (a quei tempi anche una vecchia sveglia aveva il suo valore), ma che non incise negativamente sul suo carattere generoso.

Nella Milano d'allora si facevano scherzi di ogni genere.

Durante la dittatura fascista Mussolini mise in atto parecchie cose che migliorarono un poco l'esistenza miserella di molti italiani.

Diede vita all'Opera Nazionale maternità e infanzia che provvedeva a  porgere aiuti alle famiglie numerose in difficoltà. Rese produttiva l'agricoltura, una delle economie italiane che dava buoni introiti. Fece sanare intere zone putride e pantanose, rendendole abitabili. E altro ancora.

Queste migliorie, per il popolino malmesso, sembravano quasi miracoli.

A Milano si diceva:”El Duce el sarà, come disen, vun monta sù (sarà, come dicono,un prepotente) ma lŭ al fa di rob che van ben”. (fa cose che vanno bene)

Quando l'avventura africana dell'Italia portò Francia e Inghilterra a considerare vergognosa l'invasione dell'Africa, dove, sul promontorio di Amba Aradam vennero usate armi chimiche e gas asfissianti, al popolo italiano furono imposte le sanzioni che, per la verità, non furono eccessive e durarono poco.

Ne approfittò Mussolini per inventare l'autarchia, secondo la quale si dovevano consumare e usare solo prodotti italiani. Le poche automobili in circolazione viaggiavano ad alcool etilico che sostituiva la benzina all'ottanta per cento. Su ogni negozio dovevano essere appesi cartelli con la scritta: qui si vendono solo prodotti italiani.

Vicino a casa mia vendevano esclusivamente una pasta del Sud, chiamata "La Siciliana". Mi venne da chiedere al babbo a cosa serviva quel cartello, vista l'indubbia italianità del prodotto.

Lui  mi rispose: Mettere quella dicitura è obbligatorio. E agli obblighi si deve obbedire”.

L'autarchia invase anche il linguaggio. Ne fu promotore il gerarca Achille Storace, al quale venne affibbiato il nome di: "Il Prode Achille".

I termini di origine straniera venivano cambiati con parole della nostra lingua. Il pullover, divenne il farsetto; la chiave inglese, chiave morsa; cognac, arzente; ferry_boat, battello; e via dicendo.

Milano trovò la cosa piuttosto buffa.

Quando il solito "Prode Achille decise che il "lei", essendo spagnolo, doveva  essere sostituito dal "voi", le risate invasero la città.

Non c'erano solo le risate, ma anche i mugugni. Soprattutto da parte delle donne emancipate. Io, anche da ragazza, lo ero. Mi seccava molto che il Fascismo considerasse il genere femminile meno intelligente di quello maschile e quindi meno adatto a studi di una certa rilevanza. La donna rappresentava, nelle varie ottiche, la prostituta, la moglie sottomessa o la fattrice, che veniva messa alla stregua delle mucche da riproduzione. "Donna, serva di Dio, dell'uomo e della Patria."

L'inizio della mia avversione al Fascismo avvenne la prima volta che dovetti partecipare ad una "adunata oceanica". In una zona centrale di Milano. Era stato posto, sul tetto di un palazzo, un enorme altoparlante, attraverso il quale giungeva dal balcone di Piazza Venezia a Roma, il discorso del Duce che arringava le folle.

Io non ci volevo andare. Ero una ragazzetta che ancora non si interessava di politica e che, a sera avanzata, aveva solo voglia di leggere qualche racconto interessante stando a letto.

Ma papà mi diceva: Ninni, ci dobbiamo andare. Il fascista che abita sotto di noi fa caso a chi manca al dovere di essere presente. E dopo, sono rogne.

Io ribattevo: Ma la mamma non ci va

E lui: Lei è esonerata perché malata.

In quel momento avrei voluto essere malata anch'io.

Il discorso del Duce non mi interessava e mi veniva sonno. Dormicchiavo in piedi.  Sobbalzavo ogni volta che la folla ammassata gettava l'urlo: A noi! Viva il Duce! Sei tutti noi!

Crescendo, le motivazioni per non amare coloro che governavano la mia Patria si moltiplicarono.

Mi allontanai anche dalla Chiesa che chiamava Mussolini "l'uomo della Provvidenza" e ne condivideva la poca considerazione della femminilità.

Tutta questa rumba durò fino a che intervenne le seconda guerra mondiale che Mussolini definì, con un aforisma, "guerra lampo". Durò cinque lunghi anni.

L'Italia vi partecipò più tardi di altri Stati. Ma quando il Duce la dichiarò, alleandosi alla Germania, contro Francia e Inghilterra, Milano fu tra le prime città italiane a subire i bombardamenti nemici.

Non ci volle molto per ridurla ad un cumulo di macerie, fra le quali, donne e uomini, simili a fantasmi, giravano alla ricerca di qualcosa di utile, soprattutto cibo. La terra meneghina era andata proprio a ramengo.

Precedentemente le cantine delle case erano state ripulite e disinfettate per farne dei rifugi. Coloro che provvedevano alla disinfestazione ogni tanto finivano al Pronto Soccorso, intossicati dal prodotto che usavano.

Nel 1943 ci fu l'invasione tedesca dell'Italia per punirla d'aver stipulato l'armistizio con gli Stati nemici. E nasceva la Repubblica Nazionale Fascista.

Fu distribuita alla popolazione la carta annonaria con la quale era possibile comperare cibo in quantità minime e insufficienti a nutrire. Venne in auge la "borsa nera" ovvero  la vendita di prodotti alimentari a prezzi molto alti. Era un commercio clandestino, permesso solo alle tasche più capaci e sopportato dai nuovi fascisti e dagli invasori.

A  volte, sebbene raramente, poteva capitare di essere messi al corrente che un negozio, magari lontano da casa, avesse del pane da acquistare a prezzi accettabili e senza annonaria. Allora si partiva, la lancia in  resta, diretti là, dove miracolosamente si poteva mangiare. Ci si metteva in fila. A me capitò, come ad altri, di arrivare finalmente davanti alla bottega e vedere la saracinesca che scendeva, mentre il proprietario diceva: Kaput Tutto finito!

I presenti, dopo qualche minuto d'indecisione, si allontanavano a muso lungo e ancora affamati.

Dall'inizio della guerra, fino al '43, mamma ed io rimanemmo a Milano sotto i bombardamenti. Appena, di sera (accadeva ormai ogni sera), suonava la sirena che avvertiva dell'arrivo dei bombardieri, tutti gli inquilini di casa correvano per raggiungere il rifugio.

Papà mi faceva lasciare il letto dove si dormiva vestiti, e via, giù per  le scale con mamma ansimante e spaventata. Spaventati lo eravamo un po' tutti.

In cantina c'era chi pregava, chi piangeva, chi fingeva di dormire, sobbalzando ad ogni colpo che veniva dal cielo. Casa mia fu risparmiata per tutto il tempo della guerra. Ma non furono risparmiate le finestre e le porte scardinate. Si rimediava mettendo i cartoni alle finestre e raddrizzando alla bene meglio le porte.

Di giorno bisognava aprire bene le orecchie per avvertire l'arrivo dell'aereo che chiamavamo Pippo. Arrivava inaspettato e mitragliava chiunque stesse passando di sotto.

Alla fine di quell'anno mamma ed io sfollammo nel Varesino. Il babbo dovette nascondersi nella cantina dei suoi padroni ad Arona. Era inceppato in una stupidaggine che, se non si nascondeva, poteva spedirlo in un campo di concentramento tedesco.

Verso sera di un inverno nevoso, ad Abbiategrasso, fuori Milano, era stato mitragliato un treno. Era accaduto questo: papà, obbligato ad entrare nell'UNPA (Unione Nazionale protezione antiaerea) doveva provvedere ai feriti e alla raccolta dei morti. Anche quella volta lo fece cercando di non vomitare. Il sangue, sparso copioso, gli procurava il vomito. Vide una donna che sporgeva le braccia dal finestrino. Ne aveva uno privo dell'avambraccio. Un'altra donna era chinata urlante sul figlioletto ucciso. Un uomo, avanzante verso di lui, aveva il volto distrutto.  

Si mise a tremare convulsamente. Di cose così orrende ne aveva viste troppe. Erano al di là della sua sopportazione.

Un compagno lo trascinò nel Comune dove avevano preparato, per i sopravvissuti, qualcosa di caldo da mangiare.

Gli disse: Vieni Pino, sembri anche tu un cadavere”. 

Papà si lasciò trascinare ed entrò nell'atrio del Comune dove c'era una grande tavolata sulla quale fumavano i piatti contenenti una brodaglia.

Mio padre, rimanendo in piedi, volse lo sguardo alla foto del Duce che campeggiava sul muro e urlò: Crappun! ti te sbafet i bistèch e numm la sbobba. (tu mangi le bistecche e noi la sbobba)

Bastava molto meno per essere arrestati. Fortunatamente l'amico lo trascinò fuori e gli disse: “Scappa e nasconditi. Là c'erano dei fascisti che ti hanno sentito”.

Lui se la diede a gambe. Arrivò a casa, prese un po' di soldi, baciò me e la mamma mormorando:  Porca la miseria! Ho aperto la bocca e le ho dato aria. Ma non era l'aria giusta.

Noi due rimanemmo di sasso.

Qualche giorno dopo lasciavamo Milano.

A Velate, il paese varesino che ci ospitò in una stanzaccia priva di comfort, mia madre si ammalò di brutto. Dovette abbandonare il paese e venne accolta in casa d'amici a Vimercate, nell'hinterland milanese. Io rimasi sola, con la tessera annonaria e qualche soldino che arrivava di nascosto dal babbo. Denaro messo insieme con un lavoretto fatto nella cantina dov'era nascosto. Non bastava per pagarmi la scuola e trovare un po' di mercato nero.

Frequentavo le magistrali superiori in una scuola di Varese. Quando dissi alla mia insegnante di italiano che non potevo più frequentare la scuola per mancanza di soldi, lei provvide: mi fece assumere come correttore di bozze al giornale locale, "La Prealpina."

Il redattore si stupì:Ma cosa ce ne facciamo di questa piccoletta? Sembra una bimba”.

Avevo compiuto i sedici anni, ma parevo molto più piccola.

L'insegnante replicò: “Provatela e vedrete che è brava.

Rimasi fino alla fine della guerra. Al giornale mi pagavano la scuola, qualche libro e mi davano qualcosa da mangiare. In classe, dalle otto fino alle tredici, poi al lavoro fino alle diciannove e infine la salita di due chilometri e mezzo per arrivare a casa.

Qualcuno potrebbe pensare che io soffrissi per tutta quella fatica, ma non è stato così. Mi piaceva essere indipendente e l'atmosfera giornalistica mi faceva sentire adulta.

Di sabato e di domenica ero libera. Quando era la stagione andavo a funghi e raccoglievo sempre della legna per il mio camino. Inoltre davo qualche lezione di cultura ai ragazzi del paese che mi pagavano, per lo più, a patate e polenta.

L'otto maggio 1945, al compimento dei miei diciotto anni e la guerra terminata in tutta Europa, papà, finalmente libero, mi venne a prendere per riportarmi a Milano.

Lasciare Velate mi addolorò parecchio. Mi ero innamorata di quel paese anche se in esso mi ero sentita un poco emarginata. La gente del luogo non era propensa a stringere amicizie con gli sfollati. I contadini di quella terra avara erano rozzi anche nella parlata che era un meneghino volgarizzato. Però il posto era incantevole. Purtroppo c'erano le vipere e bisognava stare molto attenti quando si girava nei boschi. Lungo un sentiero che saliva irto verso la montagna erano distribuite le quattordici cappelle del Sacromonte. Mettevano in mostra statue di grandezza naturale dedicate ai misteri del rosario. In cima, un  museo religioso. Il luogo, che oggi è considerato un bene dell'umanità, aveva intorno il Parco del Campo dei Fiori, boschi profumati, un costante vento bizzarro che muoveva  nuvole colorate, l'ululato dei lupi e il silenzio delle notti incantate.

Fu un addio colmo di lacrime.

Nella Milano, dove i palazzi rubavano il cielo, ritrovai la mia casa rabberciata alla  meglio e una città in pieno assetto ricostruttivo. Dalla Sicilia erano arrivati i muratori che la dovevano sanare dalle enormi ferite dovute al conflitto. Ci riuscirono. Dopo un anno o poco più, molte zone avevano ripreso a vivere sotto la spinta del nuovo e la volontà meneghina che ritrovava il suo valore.

Io volevo fare giornalismo, ma la mamma non volle.

Disse in modo spiccio: Non è un lavoro che renda subito del denaro e noi ne abbiamo bisogno. Ai Telefoni di Stato cercano telefoniste. Stipendio e posto sicuro. Ci vai e ti fai assumere. Ě sufficiente avere un diploma e tu ce l'hai. Ti faranno alcune domande alle quali cerca di rispondere a dovere. Poi ti proveranno l'udito, che hai buono. E ti faranno leggere qualcosa, assicurandosi che tu abbia capito ciò che hai letto. Stai attenta e non fare cavolate. Te ne pentiresti.

Fui assunta.

Cinque anni dopo chiedevo e ottenevo il trasferimento a Bologna dove mi attendeva l'amore. Qui ho costruito una nuova famiglia, marito, due figlie bravissime e la suocera con la quale imparai a stringere un rapporto solido ed affettivo. Lei curava la casa e le bimbe, io facevo carriera diventando vice capo ufficio.

Quando nonna morì e le ragazze ci lasciarono per far la vita loro, io e il mio compagno, ormai pensionati, scarpinavamo per le montagne, le valli italiane e straniere, zaino sulle  spalle e voglia di vivere.

D'inverno lui aveva hobby di ogni genere, io mi interessavo di politica e del sociale.

Una brutta epatite "C" me lo ha portato via. Per sanarne, almeno in parte, il dolore, ho iniziato a scrivere romanzi, racconti e poesie, usando il computer.

Tre anni fa, di primavera, sono tornata a Milano per rivedere la città natia.

Nel viaggio in treno ho cercato di immaginare come potesse essere cambiata.

Ovvio che lo fosse. Dovevo sentirmi preparata a trovarla molto diversa, ma pur sempre mia.

Eppure, arrivata nel rione di Porta Volta dove avevo vissuto un lungo periodo della  giovinezza, mi trovai in  un luogo quasi sconosciuto.

Il palazzo nel quale c'era la portinaia Giovanna non aveva più la portineria e sembrava un altro. Ci avevano messo anche l'ascensore.

La strada sotto casa era invasa dalle automobili e priva di ragazzi vocianti. Scomparsi gli incontri fra donne nell'ora della spesa. Solo passanti frettolosi col cellulare attaccato all'orecchio. I più parlavano a voce così alta da far sapere, agli eventuali passanti, tutti gli affari loro.

Un rumore assordante invadeva l'aria. E il cielo, un tempo limpido in quella stagione, era ingrigito dallo smog.

Non ebbi tempo di visitare, come avrei desiderato, i luoghi che, in un tempo lontano, mi avevano incantata.

Se il destino me lo concederà, ci tornerò.

Nel frattempo, da alcune amiche milanesi, ho avuto notizie fresche sulla città.

Ho saputo che la megalopoli lombarda si è dotata di una tecnologia avanzata per la quale è possibile una sua gestione più efficiente, che si può ottenere attraverso l'innovazione informatica. Sono nate molte opere di beneficenza, sia laiche che religiose, aventi lo scopo di aiutare  i disperati. Inoltre il comune ha cercato di iniziare un controllo efficiente nelle periferie, allo scopo di renderle più vivibili. E  quant'altro di utile e umanizzante.

Mi hanno anche raccontato delle loro visite all'Expo, l'esposizione universale vertente sull'alimentazione e il modo di renderla sana e gustosa. Vi hanno partecipato Stati di tutto il mondo. Questo ha reso la città meneghina un centro d'attrazione per tutti.

A  Milano stanno anche tentando di raggiungere un traguardo difficile: dare maggiori diritti alle famiglie in difficoltà. Un traguardo che incontra problemi di ogni genere. Se i cittadini verranno coinvolti con le loro idee e i loro desideri, ritengo che sarà possibile raggiungerlo.

O almeno lo spero.

Fra i tanti ricordi di cui ho parlato, ne spicca uno particolare. Certe fantastiche parole di mio padre:  Credimi Ninni. governare è molto difficile. Lo è anche in famiglia. Occorre una buona dose di altruismo, di interesse sincero per la generalità dei cittadini, il coinvolgimento degli stessi nelle scelte chi li riguardano. Ci vuole fede nella giustizia, nel bene comune. E anche modestia e coscienza di sé.

Grande, grande papà mio!

Sono tornata a casa ripensando a quella moderna Milano che mi era divenuta forestiera.

E della quale, nascoste dentro di me, ritrovo le tante rimembranze.

Ciò che è stato.

Tutto ciò che di  giusto o di ingiusto ho vissuto intensamente. Danzante nella culla dei sogni.

 

 

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