Sono nato nel 1938. Appena “ scoppiata” la guerra la mia famiglia “sfollò” subito in campagna presso un fratello di mia nonna che conduceva a mezzadria un podere a San Vincenzo di Galliera, un paese a metà strada fra Bologna e Ferrara.

I miei ricordi cominciano là.

La casa era grande, quadrata, a due piani. L’entrata accedeva a una loggia molto ampia: a destra la scala per salire al primo piano, di fronte lo “ stanzino “ dove erano ricoverati gli attrezzi, a sinistra la cucina.

La cucina era molto ampia, a sinistra un camino che con il “cantone” in cui era ricoverata la legna: prendeva tutta la parete. Sul cantone era sistemata un una tavola di legno che vedeva la sera raccolti i bimbi ad ascoltare le favole spesso sdraiati e addormentati, in ciò favoriti dal tepore del camino.

Di fronte la “spaltura” che conteneva la farina e il pane e una porta di accesso alla cantina dal cui soffitto pendevano prosciutti, salcicce e pezzi di “pancetta”.

Un solo grande tavolo nel centro della cucina, in alto sul muro una Madonna di ceramica lievemente illuminata da una luce perpetua.

Al primo piano diverse camere una dentro l’altra in quanto mancava il corridoio.

Il capo famiglia aveva con il sacerdote un pessimo rapporto ma nonostante ciò io ricordo, di quella numerosa famiglia, un grandissimo senso di religiosità. In maggio con gli occhi imploranti verso la Madonna di ceramica si snocciolava a volte un rosario. E bimbi, quando andavano a letto, con il “prete” e con la “suora”, erano tenuti a dire una preghiera per invocare la fine della guerra.

La chiesa esattamente di fronte alla casa dall’altra parte della strada aveva un campanile in cui i robusti e forzuti contadini, pur nella stragrande maggioranza mangiapreti, snocciolavano alla domenica  formidabili “doppi”. Della chiesa ricordo un grande odore di incenso e una nebbia che a stento lasciava intravvedere il prete.

Nella corte della casa si affacciava a sinistra la stalla al primo piano e il fienile nel piano superiore.

Di fianco all’entrata della casa c’era un pozzo che serviva praticamente da frigorifero, più in là  il pollaio e il forno per il pane.

La chiesa di fronte  vicinissima e la corte formavano praticamente  un borgo.

Ricordo bene e distinte le quattro stagioni.

La primavera con le viole nei fossi e i nidi dei passeri che noi bambini dovevamo rigorosamente rispettare. Percepivo sia pur vagamente che le giovinette andavano in calore, mentre si infittivano le visite dei pretendenti.

Poi arrivava l’estate. Un caldo terribile a mietere il grano sotto un sole implacabile. Io portavo con la bicicletta il vino nero “ annaffiato “ rinfrescato con una corda dentro al pozzo e venivo sistematicamente rimproverato in quanto mi si accusava di portare il vino “ buono “ solo ai padroni. Alla fine dell’estate arrivava nella corte una grande macchina a vapore che separava il grano dalle spighe.

L’autunno piovoso e nebbioso era il periodo della semina e della concimazione fatta con il letame della stalla.

In inverno i contadini si riposavano, ma  non erano comunque mai con le mani in mano. A volte falegnami, sostituivano i pioli delle scale servite in autunno per la potatura, costruivano piccoli sgabelli da usare per la mungitura, sistemavano  la scaletta del pollaio; a volte fabbri, si arrotavano le falci e i coltelli, aggiustavano parte di macchine agricole usurate e rotte ed erano capaci anche di saldare. Di sera dopo cena ci si andava a volte a scaldare nella stalla: i bambini giocavano o ascoltavano le favole, le donne filavano, entravano a volte dei giovanotti per corteggiare le ragazze. Per contro i  giovani della casa  erano altrove in altre stalle e gli uomini adulti in osteria.

Il pane si cuoceva nel forno ogni due settimane, bianco, profumato. Passavano in quel giorno dei vicini a fare la provvista di pane che avrebbero poi essi stessi fatto e restituito qualche giorno dopo. Nel ricordo questo mi è sembrato un buon metodo per mangiare sempre il pane fresco.

Le galline erano buonissime (da mangiare), la carne era saporita e consistente. Le uova fresche (che io andavo a “levare” )  avevano un tuorlo rosso intenso e un sapore altrettanto forte.

Si mangiavano solamente polli e maiale. Il maiale era il salvadanaio sapientemente  gestito dalla “arzdora”. Ricordo che il prosciutto si tagliava con il coltello, le fette erano grosse e si mangiava anche il grasso: nessuno parlava di colesterolo che veniva consumato  con il lavoro nei campi.

Il nonno moriva di una unica ed indeterminata malattia denominata “il colpo”.

I matrimoni avvenivano fra abitanti di case vicine, al massimo di un paese a pochi chilometri di distanza. La figlia lasciava la casa e andava a vivere in una stanza della casa dei suoceri. Bastava un letto di ferro, una “brocca” per l’acqua e un catino. Ricordo a volte di aver sentito la sposa a colloquio con la madre vicino al camino per criticare le diverse abitudini della famiglia del marito.

Mi sono sembrati tanto buoni i miei contadini ! Mi sembrava che non litigassero mai in famiglia e i vicini non erano rivali. Sapevano fare di tutto, sapevano aggiustare tutto. Conducevano una vita serena ed erano sicuramente più vicini al Signore… e gli animali a sant’Antonio.

Alla fine della guerra sono ritornato in città

La zona bassa e popolare, dalla parte opposta della collina, cominciò sia pure lentamente a popolarsi di contadini che abbandonato il lavoro dei campi cominciavano a inurbarsi  occupandosi nelle fabbriche come operai. Pur abitando nel condominio mantenevano tuttavia quel calore e quella disponibilità che avevo conosciuto in campagna, ma la chiesa era lontana e il suono delle campane non era quello vero ma quello innaturale e gracchiante di altoparlante azionato da un disco.

Gli appartamenti privi di riscaldamento facevano ancora percepire le stagioni. L’inverno rigido costringeva ad andare a letto ancora con il prete, ora diventato elettrico; mancava la suora con le braci accese che davano alle lenzuola un calore più forte e più gradevole.

Dopo alcuni anni il mio impegno in una professione emergente mi ha consentito di andare a vivere sui colli e li ho conosciuto una  civiltà diversa e sicuramente peggiore, diversità probabilmente accentuata dal confronto fra l’infanzia e la tarda età.

La casa ora ha il riscaldamento e l’aria condizionata e così ho perso la presenza delle quattro stagioni. In inverno si va alle Canarie e d’estate sulle Dolomiti. In primavera non riesco a vedere un nido, le viole sono scomparse, mentre le piogge autunnali si superano viaggiando in automobile.

Nel condominio la parola d’ordine è la privacy: se ti manca il sale si mangia la pasta asciutta insipida.

I nonni non muoiono più con un “colpo” vicino al camino ma alla casa di riposo, da lì al cimitero su una bella Mercedes nera. Prima, durante la malattia si pratica la privacy ma alla morte del nonno il condominio non si tira indietro e l’amministratore fa pubblicare sul giornale la solita frase standardizzata:

il condominio di via…. partecipa costernato…

Ricordo i funerali di campagna con i figli o i nipoti che si caricavano sulle robuste spalle la cassa dimostrando a tutti la loro forza  e il loro affetto e si incamminavano lentamente verso il cimitero mentre altri  amici suonavano le campane, quelle vere.

La religiosità è diversa e sempre peggiore: grande come quantità, scarsa come qualità. Per carità le chiese non mancano e il vip é capace di dare cento euro all’offertorio  per cercare in questo modo di guadagnarsi il Paradiso. Quando si scrive un racconto, quando si é sopraffatti dalla nostalgia dell’infanzia può accadere che si sia portati anche alla immaginazione; ma qui non è il caso se dico ed è vero che nel raggio di cinquecento metri dalla mia casa sui colli si contano tre conventi di cui uno enorme occupa quelli che gli americani chiamano un blocco cioè quattro strade che si incrociano. Tutti questi  conventi mi sembrano meno vicini a Dio di quella Madonnina di ceramica che non riesco a dimenticare in quella cucina della casa di campagna.

La mancanza di manualità dei vip mi fa impazzire.

Se brucia una lampadina ad altezza d’uomo la signora - manager del condominio

si affaccia nelle scale e… “non va una lampadina, chiamiamo un tecnico?”

Il tecnico arriva e poi manda la fattura: sostituita lampada, verifica impianto, chiamata con urgenza euro 350.

Nel condominio non si vede un fiore, quei pochi che pianta il giardiniere muoiono senza l’amore di  chi i fiori li ama. Per carità al cimitero i fiori ci sono sempre e belli freschi, ma li porta per contratto il fioraio. Ma siamo proprio sicuri che il nonno morto non si arrabbi per una cosa del genere ?

Di potare non se ne parla, nessuno ne capisce niente, chiamare una ditta per la potatura è un costo che spesso neppure i vip possono sostenere

Se nevica nessuno prende un badile in mano, si parte con il quattro ruote e si aspetta che il sole risolva il problema. Nella cantina comune c’è da anni una macchina sgombra neve ma nessuno lo sa mettere in moto: l’ingegnere è un commerciale e se gli chiedi di piantare un chiodo lo pianta dalla parte della cappella.

Nel condominio non si sentono gli odori dei soffritti. Per contro si vedono davanti al cancello dei furgoni-frigo che consegnano prodotti surgelati.

Cambierei con tanta gioia due laureati del mio condominio con due contadini e sono sicuro che la mia vita sarebbe migliore !..Solo a pensarci mi sembra di sentire il rumore dello sgombra neve.  

 

 

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